Facciamo a immedesimarsi in un top manager di un top club. Si sveglia una mattina e dice: ma perché cazzo questa azienda che dirigo non può avere il controllo diretto della maggiore forma di fatturato che produce, come tutte le altre aziende del mondo?
Dice: ma se questi della UEFA non sanno vendere i diritti tv delle mie partite a 200 milioni di Indonesiani, perché non posso investire io in strategie commerciali più adeguate a vendermi? Perché devo dipendere da un’istituzione che si prende il 25% di quello che io produco e che inoltre manda il cugino dello zio raccomandato del presidente a vendere i diritti?
Pensa ai suoi amici della FIFA, della UEFA, e non si sente certo in colpa, perché c’era anche lui quando hanno detto: “I mondiali in Qatar a dicembre? Perché no!?! Operazione specchiata”.
E allora dice: siccome lo sa anche il gatto che il capitalismo tende alla concentrazione dei capitali e alla globalizzazione, che ci sarà di male se dopo che mi sono indebitato come un drago per essere sicuro di restare in 12 in tutta Europa a poter vincere le partite, adesso faccio cartello e mi commercializzo da solo il prodotto? Oltretutto, così la finiamo con sta rottura di sbagliare stagione perché magari quel furgone che ho comprato in attacco seguendo l’analisi di mercato sui gusti dei ventenni di Mumbai mi prende il palo nel momento sbagliato e io sballo ancor di più nei bilanci: niente retrocessioni, così diamo stabilità al business!
Il ragionamento ha un senso, il top manager si sente pieno di energia, fa colazione e va al lavoro, carico come un grande.
Poi verso pranzo ha un pensiero che lo corruccia. Diventa taciturno, si chiude nei suoi pensieri. Ma per fortuna alzandosi da tavola ha una trovata imbattibile che lo rassicura. Se qualcuno mi rompe le palle, io rispondo che la SuperLega porta al sistema calcio un fondo di solidarietà di 160 milioni di euro maggiore di quello che riesce a dare la UEFA, perché in effetti è così facile fare trattative migliori di quelle fatte dal cugino dello zio raccomandato. E, galvanizzato, si mette al telefono e chiama tutti gli altri. Non è facile trovare qualche collega, perché in molti hanno chiuso il telefono per non rispondere a Ceferin che li cerca da venerdì. Ma infine, verso sera, si trovano su Zoom e concordano un buon comunicato.
Poi forse si distraggono un po’ nei santissimi affari loro e il comunicato esce un po’ tardi, a mezzanotte. Le malelingue commentano: “come i ladri nel buio”, ma insomma, si è fatta la storia del calcio!
La mattina qualcuno di loro vuole trionfare e si presenta alla stampa con un’importante dichiarazione: «In questo momento critico ci siamo riuniti per consentire la trasformazione della competizione europea, mettendo il gioco che amiamo su un percorso di sviluppo sostenibile a lungo termine, con un meccanismo di solidarietà fortemente aumentato, garantendo a tifosi e appassionati un programma di partite che sappia alimentare il loro desiderio di calcio e, al contempo, fornisca un esempio positivo e coinvolgente».
Qui mi fermo con lo scherzo perché quello che ho fatto finora è volutamente sbagliato, ed è la nostra procedura abituale, tipo la volpe e l’uva. Prendiamo in giro quello che non riusciamo a contrastare, con la nostra abituale finezza da esegeti di sta ceppa. Questa frase invece va presa sul serio, in quanto contiene dei punti programmatici su cui occorre sapere offrire delle alternative: 1) sviluppo sostenibile del gioco; 2) meccanismo di solidarietà aumentato; 3) un programma che alimenti il desiderio di calcio dei tifosi; 4) un esempio positivo e coinvolgente, dunque una politica culturale e morale.
Il problema in gioco è cosa sia lo sport. A cosa serva. A tal proposito Agnelli, nella sua intervista al Corriere della Sera, ha espresso una visione chiara. Ha formulato un’intera visione del mondo. “Il calcio non è più un gioco ma un comparto industriale”; la UEFA deve decidere “se essere un regolatore o un promoter commerciale”; il nostro obiettivo è svilupparci come “marchio globale”; “Desideriamo continuare a importare altri campioni con benefici per tutti i livelli del calcio, dai più giovani ai dilettanti”.
Io credo che Agnelli e Perez si sbagliano, sopravvalutando le potenzialità di mercato del calcio. Cioè, secondo me sbagliano valutazione sul punto 3): un programma che alimenti il desiderio dei tifosi.
L’assunto su cui si basa la SuperLega è che il calcio sarà più sostenibile quando avrà sperimentato un format capace di coinvolgere i ragazzi globali di oggi in un intrattenimento capace di competere “con Fortnite, League of Legends e Call of Duty”, dunque uno show capace di stimolare i neuroni grazie a dosi massicce di adrenalina e velocità.
Sono passati 11 anni da quando in Stadio Italia descrivevamo la tendenza a trasformare il tifoso in consumatore. Ieri sera mi ha scritto Alessandro Doranti, che è così naive da pensare che in Stadio Italia ci sia sempre già scritto tutto, e mi fa: “Ma nel libro parlavamo della SuperLega?” E io: “Non penso, è un’idea così del cazzo che siamo rimasti indietro addirittura noi”, intendendo che era veramente tosto prevedere che il target di riferimento dei processi di ristrutturazione calcistica fosse una versione “bimbominkia” dei Drughi Solidi Indonesia, che erano già comunque debordanti. Tuttavia, è un processo che si è accelerato e che oggi condiziona ancor più pesantemente la scena.
Io però non credo che il calcio possa cambiare tanto da competere con i tempi di un videogioco, con i tempi di una stories, con la frivolezza liquida di una Lega digitale di FIFA.
Il calcio non è facilmente frivolo, perché ha una sua profondità, un legame con l’inconscio. Io dico che mantiene le tracce di un dialogo con la propria infanzia. Lo ha descritto bene Francesco Berlingeri: “Siamo noi il problema. Noi e la nostra infatuazione infantile. Che quando ci siamo innamorati di una maglia e l’abbiamo fatta nostra, abbiamo idealizzato il momento perfetto. E impresso nella mente e nel cuore il profumo dei fumogeni, i fazzoletti sulla testa a riparare dal caldo a picco, quella gran massa di uomini sugli spalti, il venditore di noccioline e lo spaccio delle birre. Ogni singolo aspetto ha concorso a costruire un mosaico sentimentale. Che, nel momento stesso in cui si è mostrato, affascinante e irripetibile, ha cessato di esistere nel mondo del tangibile ed è volato nel cielo dell’epica. Da quel giorno, ogni ragazzino di curva o di stadio, sogna di rivivere l’amore totalizzante del primo incontro, del primo anniversario, della prima promozione. I dolori per cui si piange, le rare gioie per cui si suona il clacson. Eppure, anche nell’ultimo scorcio di Ottanta, quando la mia passione per i colori sociali era integralista e non ammetteva relativismi, dinanzi alla Domenica sportiva, mio padre non mancava mai di sottolineare che non era quello il vero calcio. Che il suo, quello della sua giovinezza, era il vero calcio. In questo noi tifosi ci inganniamo, confondendo il soggettivo con l’oggettivo: la nostra passione con lo spettacolo di cui ci cibiamo”.
Il calcio, in primo luogo, vive delle contraddizioni del desiderio.
Ma Agnelli e Perez ci direbbero che questa contraddizione è aggirabile, perché possiamo sostituire integralmente i tifosi con i consumatori. C’è un problema in questo schema: il calcio non mi sembra uno sport così adatto a questa operazione. Tra gli sport di squadra, il calcio è tra i meno spettacolari. Ci sono lunghe pause, la difesa è privilegiata rispetto all’attacco. La verità è che il calcio si regge su un meccanismo utopico: ogni azione che parte ha l’utopia di finire nella porta avversaria, anche se questo non succede quasi mai. Solo il tifoso può avere la tenacia di accettare una cosa simile, così frustrante, così rara. Il meccanismo è utopico, non spettacolare. Sono due cose quasi opposte. L’utopia è per il tifoso, lo spettacolo è per il consumatore.
Non so quali variazioni al regolamento prevedano Agnelli e Perez per competere sullo stesso terreno dei video dove i giovani stanno a guardare qualcun altro che gioca a un videogioco. Partite più corte? Porte più grandi? 9 contro 9? Se il target è catturare le soglie di attenzione più basse, forse nemmeno una partita di 5 minuti va bene. Forse bisogna organizzare una breve serie di shot-out dove si fronteggiano per pochi istanti i due migliori attaccanti di una squadra contro il portiere e il miglior difensore dell’altra.
Io credo che il calcio farà una grande fatica a coinvolgere in modo stabile questo nuovo target di spettatori globali e digitali. Penso invece che sia un gioco perfetto per generare tifosi. Dunque, aziendalmente, ritengo che ogni Club dovrebbe progettare il suo business sostenibile nel coinvolgimento dei tifosi. Fossi Perez, mi porrei il problema di trasformare quanti più consumatori globali possibili in tifosi. Come fare?
Il tifoso vuole sentirsi speciale. Vuole credere che la squadra sta giocando per lui. Vuole sentire che quello che sta succedendo abbia a che fare con la sua vita, con le sue appartenenze, con le sue contraddizioni. Non dico che sia per forza una bella cosa, anzi magari è una cosa piuttosto stupida, ma è così. Per questo il carattere utopico del calcio è adeguato alla ricerca di emozioni simili, per questo se sei convolto da tifoso è fantastico anche vedere Catanzaro-Cosenza oppure Lebowski-Galluzzo. Sono queste le emozioni che sicuramente puoi vendere per sempre.
Quello che voglio dire è che se il calcio può essere un prodotto di consumo, di intrattenimento, è perché il calcio prima è una cultura, cioè ha dei valori, ha una storia, ha dei meccanismi emotivi complessi. Il progetto della SuperLega mi sembra che non faccia i conti con i significati e i valori che il calcio ha per gran parte dei fruitori. E quindi, senza qualche astuto aggiustamento, potrebbe non essere vincente nemmeno a livello di business, in quanto potrebbe situarsi su un mercato molto più instabile dei desideri di stabilità dei top club. Il problema di Agnelli e Perez sembra quasi non riguardare il format, ma il calcio in sé come sport.
Veniamo al punto 2), ossia la capacità di generare un meccanismo di solidarietà aumentato. Un punto decisivo della SuperLega è la rivendicazione della maggiore sostenibilità per l’intero sistema, che è avvitato in una crisi strutturale, dalle serie maggiori alle società dilettantistiche di base. La SuperLega prevede di portare maggiori risorse al sistema. Il progetto è destinare alla mutualità (ossia alla “solidarietà” verso l’intero sistema-calcio) dieci miliardi di euro in 23 anni. Circa 434 milioni l’anno per i prossimi 23 anni, 160 in più dell’attuale “solidarietà” Uefa. Nelle dichiarazioni, la destinazione principale sarebbe correttamente destinata allo sviluppo del calcio di base, dei settori giovanili e del calcio femminile.
Qui la questione politica si complica. Una delle dichiarazioni più interessanti in merito è quella di Franco Carraro, democristiano, per una vita al vertice del calcio italiano. Carraro è in pensione, fuori dai riflettori, può parlare più serenamente. E infatti si lascia un po’ andare. Dice che ai suoi tempi c’erano Galliani e Giraudo come Ad di Milan e Juventus e che loro avevano estrema attenzione verso gli interessi dei loro Club, ma riuscivano a mantenere un minimo di sensibilità verso la situazione generale. Dice “Tiravano la corda, ma si fermavano prima di spezzarla”. E lì, con noncurante orgoglio, rivendica il ruolo della sua politica, della politica che conosce lui: essere il comitato d’affari dei potenti. Le istituzioni servivano a garantire che le volontà dei big fossero efficacemente negoziate nei tavoli collettivi. Questo è quello che ricorda paternalisticamente ai Club che hanno operato lo strappo. Quello che colpisce è il candore con cui ammette che gli unici soggetti possibili del cambiamento sono “le grandi”. Questo è uno spaccato di un certo modo di funzionare delle istituzioni che può essere allargato ben oltre il calcio.
Nel caso della SuperLega non è stato perso il “punto di vista generale”. La loro proposta mira a generare maggiori risorse per tutto il sistema, appunto 160 milioni in più a stagione. La differenza col passato è che i 12 hanno rifiutato ogni attività di lobbying e hanno ritenuto superflua la camera di compensazione delle istituzioni. Che, di conseguenza, si sono ribellate, rivendicando il loro “ruolo sociale”. Uno dei più espliciti è stato Mario Draghi, che ci porta al cuore del problema. Draghi si è unito alle voci di dissenso della politica europea: “Il governo segue con attenzione il dibattito intorno alla Superlega e sostiene con determinazione le posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport”.
E veniamo alle proposte politiche che segnino una nostra alternativa al sistema dominante. Siccome Draghi, con tutti i suoi colleghi europei, hanno contrapposto a questa visione la “funzione sociale” del calcio, prendo atto che si sia aperto uno spazio politico per formulare un ragionamento in merito.
In primo luogo, vorrei sapere in che modo l’attuale governo sta progettando di potenziare la sbandierata funzione sociale dello sport, dal momento che le scelte di questi mesi in materia sono abbondantemente sotto gli occhi di tutti?
Siccome, malfidato come sono, credo che il governo Draghi non risolverà questo problema, auspico che si riesca a formulare una visione da provare a imporre. Per essere credibile, questa visione deve essere in grado da una parte di rispondere al desiderio dei tifosi, dall’altra di produrre risorse capaci di sostenere l’intero sistema. Dobbiamo trovare le risorse che ci servono senza essere ricattati per aver attinto agli spiccioli degli accordi televisivi strappati dalle big.
Qui provo a tracciare una via opposta a quella di Agnelli e Perez. In sintesi, la mia idea è che la sostenibilità del calcio non sarà garantita dai nuovi giovani consumatori asiatici, ma da un eventuale maggiore coinvolgimento dei tifosi. Quindi, le istituzioni e i Club dovrebbero mirare a produrre politiche e strategie in grado di aumentare la passione e il senso di appartenenza. Per farlo occorre aumentare il radicamento di ogni Club all’interno della sua comunità (che non per forza deve avere una corrispondenza territoriale), mostrando che il Club si occupa di rispondere a certi valori, a certe aspettative, alla qualità della vita della comunità.
Propongo così di non seguire l’abituale modello top-down, che la SuperLega ha solo esasperato, ma di definire un percorso che costruisca la sostenibilità del sistema calcio a partire dall’esaltazione del ruolo del tifoso e dunque della comunità. Per far questo è necessario che il calcio approfondisca il tema della propria rilevanza sociale, civile ed economica per gli interessi collettivi, perché esprimere compiutamente questa sensibilità mi sembra la chiave per aumentare il senso di appartenenza dei tifosi.
Parto dal dilettantismo e vado verso l’alto, perché la sostenibilità si ottiene tutelando la base della piramide e curando ogni particolare per suscitare quei legami che portano al tifo.
Mario Draghi, che ha parlato di “funzione sociale” del calcio, dovrebbe sapere che c’è una grande possibilità a disposizione: il Recovery Fund.
Il Recovery Fund mette a disposizione miliardi di euro per intervenire su alcune dimensioni fondamentali. Al nostro discorso ne interessano tre: Salute; Istruzione, formazione, ricerca e cultura; Equità sociale, di genere, territoriale.
Il calcio dilettantistico, ma lo sport dilettantistico in generale, potrebbe svolgere un ruolo per raggiungere alcuni decisivi obiettivi che riguardano queste tre dimensioni. La scommessa è ripensare radicalmente lo statuto del calcio dilettantistico, potenziando a dismisura la sua vocazione sociale e dismettendone la tendenza a scimmiottare goffamente l’agonismo dei professionisti.
Attualmente c’è un drammatico problema, acuito dalla pandemia ma strutturale, di tenuta nel calcio dilettantistico, con una grossa contrazione di entrate e di sponsorizzazioni, e una inesistente mutualità. Ma le associazioni sportive dilettantistiche hanno la potenzialità di diventare un luogo fondamentale per la tenuta sociale del territorio e sopperire a esigenze che in altri luoghi è difficile soddisfare.
Usiamo una piccola parte dei soldi del Recovery che saranno usati per foraggiare la sanità privata e per costruire edifici inutili e dedichiamoli a finanziare un serio programma di servizi di prevenzione e di educazione alla salute che è possibile organizzare presso la società sportiva. Ci accorgeremo che in nessun altro luogo della città ci sarà una così elevata frequentazione del servizio, per il carattere di forte confidenza che l’impianto sportivo trasmette a chiunque lo frequenti e per la possibilità di mediazione di istruttori e istruttrici che conoscono le ragazze e i ragazzi del territorio come nessun altro.
Ci sono per esempio dei progetti sperimentali, che il Centro Storico Lebowski ha scritto assieme all’ARS Toscana e che sono pubblici, dove tracciamo delle linee operative per valorizzare davvero la centralità dello sport nella promozione della salute. Non solo perché la pratica di una disciplina sportiva contribuisce a ridurre di per sé tutta una serie di fattori di rischio quali l’obesità o la sedentarietà, e non solo per il beneficio sociale, emotivo e psicologico che garantisce, ma soprattutto perché il contesto quotidiano di socializzazione e di crescita tipico di un impianto permette ai giovani e alle famiglie un’accessibilità molto diversa con il servizio sanitario, specie in una fase di prevenzione e di orientamento.
I benefici di attivare dei consultori e degli sportelli presso la società sportiva mettendo a disposizione dei professionisti specializzati nelle discipline mediche, psicologiche, infermieristiche di assistenza sociale, della nutrizione, della postura, del linguaggio. Questo avrebbe una funzione rivoluzionaria nella capacità di diffondere stili di vita corretti, di intercettare e sciogliere alcuni problemi nella fase iniziale, grazie anche alla guida di preziose antenne per le famiglie come sono gli istruttori e le istruttrici presenti nelle nostre società sportive.
Un progetto del genere si sposa perfettamente con i criteri generali che dovrebbero guidare la stesura dei programmi del Recovery, dal momento che è ampiamente dimostrato come la riduzione dei fondi per la prevenzione e l’educazione alla salute, giustificata con la necessità di tagliare la spesa pubblica, porta irrimediabilmente, oltre che a un notevole peggioramento della qualità della vita della popolazione, a un pesante aggravio di costi del sistema sanitario per la cura delle patologie sopra citate. Con questo tipo di intervento andremmo a investire in un insieme di azioni capaci abbassare la spesa pubblica.
Allo stesso modo, la letteratura pedagogica ci spiega come le associazioni sportive siano la terza agenzia formativa in Italia, dopo la famiglia e la scuola. Lo sport di base è un progetto educativo perché si lavora sulla motricità, sulla creatività e sulle emozioni dei bambini e delle bambine in un modo che la scuola non ha tempo di fare e che le trasformazioni degli stili di vita, sempre più sedentari e solitari, rendono ben più urgente del passato, dove il tempo trascorso in gruppo all’aria aperta erano ben maggiori.
Nell’attività sportiva di base si lavora nello stesso tempo sulla loro identità sociale e sulla confidenza col proprio corpo. E’ un’opera che ha bisogno di continuità, perché le dimensioni del «sé» e del «noi» da scoprire sono tante e per qualsiasi conquista c’è bisogno di tempo e dedizione. Purtroppo questa evidenza non è spesso ben interpretata dalle stesse associazioni sportive, ma soprattutto non è sostenuta dalle istituzioni, che non comprendono nel modo più assoluto la necessità di potenziare i percorsi educativi compresi nella pratica sportiva e nella socialità.
Serve un percorso di formazione permanente per i formatori, che devono essere retribuiti tenendo conto della delicatezza della missione che svolgono. Servono risorse per aumentare il rapporto educativo tra educatori ed educatrici e bambini e bambine, ossia avere un numero di educatori ed educatrici adeguato a valorizzare le singole individualità all’interno della vita del gruppo, operazione molto complicata se non abbiamo il personale in numero adeguato. Serve una sistematica connessione con le scuole del territorio, per stringere preziose alleanze educative. E’ necessario potenziare l’accessibilità alla pratica sportiva, investendo nei trasporti. Ogni società sportiva dovrebbe avere nell’impianto pedagogisti/e nel ruolo di responsabili educativi per curare la formazione dello staff e supervisionarne il lavoro e l’interazione con le famiglie.
Anche qui esistono validi progetti a cui è possibile ispirarsi. E’ necessario formulare dei criteri rigorosi a cui ogni società che vuole accedere ai fondi deve attenersi per compiere la propria vocazione pedagogica e poi istituire una equipe esterna che stimoli e monitori sull’effettivo rispetto dei programmi.
Ci sono enormi spazi di manovra anche per quanto riguarda l’equità di genere. C’è un dibattito in Italia sull’opportunità di insegnare educazione sessuale nelle scuole. Clamorosamente, in Italia non esiste una legge nazionale che preveda un’educazione sessuale fatta in classe che sia capillare, omogenea a livello territoriale e attenta alle varie identità e orientamenti sessuali di pre-adolescenti e adolescenti. Questa situazione ignora un’evidenza chiara nel dibattito internazionale: l’impatto di una buona educazione sessuale affianca a risultati quantificabili sui comportamenti a rischio una serie di “soft outcomes”, ovvero risultati non quantificabili, che potremmo definire come la capacità di produrre comportamenti relativi al rapporto col proprio corpo e con il corpo degli altri che hanno ricadute positive sulla collettività: autostima, capacità di accettarsi e di accettare, piacere sessuale e relazioni basate sul rispetto reciproco, capacità di negoziazione, eccetera.
Quello che da anni abbiamo sperimentato al Centro Storico Lebowski è la potenza di usare uno spazio fortemente attraversato da stereotipi di genere, il campo di calcio, con il fine di trasformarlo, al contrario, in un luogo dedicato alla valorizzazione delle differenze di genere e al contrasto alla violenza materiale e simbolica che colpisce in particolar modo le donne.
La promozione del calcio femminile in Italia è svolta con un modello, manco a dirlo, top-down. Si è chiesto ai grandi Club di fare una squadra di calcio femminile ed è stata data la possibilità di partire direttamente dalla Serie A. La forza dei brand maschili, indossati dalle donne, è stata individuata come la chiave principale per la diffusione di questo sport presso un’utenza femminile. Nel calcio femminile si comprendono ancor meglio i limiti di un modello top-down. Si manifesta infatti con grande chiarezza come sia necessario porre attenzione al corretto sviluppo della base per raggiungere risultati economici in grado di portare sostenibilità. Più riusciamo ad aumentare il numero di tesserate sui nostri territori, più cresce il numero di amiche, amici, famiglie interessate al calcio femminile. Questo aumento di attenzione creerebbe una situazione via via più proficua per gli investimenti e l’arrivo di partner commerciali e assegnerebbe dunque un valore al prodotto.
Il modello top-down non può risolvere la questione del reclutamento e dello sviluppo del percorso calcistico per le bambine in quanto negli impianti sportivi del territorio mancano sia gli spazi per l’attività femminile che, soprattutto, la cultura e la competenza per rendere davvero accessibile e gratificante l’attività a bambine che già a 5 anni hanno un gap di centinaia di ore di gioco libero col pallone rispetto ai pari età, sperimentano fin dalla culla stereotipi e barriere relative alle loro possibilità muoversi “selvaggiamente”, sono private di un certo protagonismo nello spazio pubblico, letteralmente “incorporano” la discriminazione di genere.
Senza un serio intervento sulle infrastrutture e sulla decostruzione delle gabbie fisiche e culturali che ci avvolgono, lo sviluppo sui territori del calcio femminile sarà oltremodo limitato.
Propongo così di investire una piccola parte dei fondi destinati all’equità di genere in progetti rivolti alle società sportive e destinati a valorizzare lo sport come un luogo privilegiato in cui:
– potenziare la capacità delle giovani generazioni di leggere criticamente l’attuale strutturazione dei ruoli di genere, le relative asimmetrie e i danni che ne derivano;
– prendere coscienza della forza del proprio corpo;
– vivere la consapevolezza della libertà del corpo altrui;
– potenziare la capacità di valorizzare se stessi/e e le proprie scelte anche se poco in linea con gli stereotipi di genere;
– sottrarre i bambini e le bambine a messaggi tossici che ne limitano la crescita emotiva attraverso la creazione di un’esperienza di corpo a corpo maschile/femminile che si svolge dentro una cornice ludica e di cooperazione.
Si tratta dunque di costruire una metodologia innovativa e replicabile di insegnamento dell’attività calcistica di base, capace di mettere al centro la massima accessibilità per i bambini e le bambine del territorio e di garantire allo stesso tempo divertimento e apprendimento motorio. Un ambiente in cui allo lo sviluppo delle competenze motorie è intimamente associato a uno sviluppo delle competenze relazionali, psicologiche ed emotive. Per farlo servono risorse, ma i risultati sono straordinari. Al Centro Storico Lebowski dopo anni di lavoro con gruppi misti, si inizia a vedere la mescolanza anche nel gioco libero in piazza o ai giardini del quartiere, luoghi calcisticamente tabù per le donne.
Ricapitolando, per dare stabilità al sistema calcio credo che in prima istanza bisogna investire sulla funzione sociale delle associazioni calcistiche dilettantistiche, valorizzandone il ruolo che possono avere per la prevenzione e l’educazione alla salute, per la formazione e per l’equità di genere. Questi obiettivi possono essere finanziati con il Recovery Fund. Per salvarsi dalla lenta agonia in cui è precipitato il calcio dilettantistico, le società devono accettare di ripensare il proprio ruolo e dotarsi delle competenze e delle infrastrutture necessarie a operare in direzione degli obiettivi proposti. Non c’è bisogno delle briciole della SuperLega. Le dovrebbe fare chi difende la “funzione sociale” del calcio, come ha fatto Draghi. Ma non le farà nessun altro che noi, con le nostre mobilitazioni e con le nostre organizzazioni politiche, che sarebbe meglio rafforzare alla svelta.
Salendo di livello, verso il professionismo, è necessario prendere sul serio una serie di strumenti normativi che già esistono: un tetto salariale; un serio fair-play finanziario; una limitazione dell’accesso al credito come strumento di competizione; una riforma del diritto del lavoro sportivo; una riorganizzazione dei campionati e della mutualità; un potenziamento delle capacità commerciali delle istituzioni.
Se non si vuole aderire al modello che vede la diffusione sul mercato globale come unica ancora di salvezza, si deve poi investire con maggior determinazione sulle capacità “interne”, quindi sulla qualità dei progetti aziendali complessivi e sulla valorizzazione del brand all’interno della comunità di riferimento.
C’è un grosso potenziale economico ancora inespresso. Per esempio, il riempimento medio degli impianti di Serie C rispetto alla capienza potenziale era solo di circa il 24%. Andiamo a misurare che effetti profondi sui bilanci del Club avrebbe l’impatto di differenti percentuali di riempimento.
Questo dato ci suggerisce una prima pista: mancando una scala globale dove reperire risorse, è il territorio di riferimento il bacino in cui estrarre risorse.
La profonda crisi che attanaglia il calcio italiano deve generare una domanda: “può esistere un progetto sportivo senza un progetto di radicamento sul territorio?”.
Io ritengo che sperimentare nuove soluzioni di radicamento di un progetto calcistico sul territorio sia la chiave per aspirare a raggiungerne la sostenibilità o, quantomeno, a garantire nuove importanti forme di supporto economico per i Club.
Si deve così lavorare nello sviluppo di best practices aziendali; nello studio di un nuovo modello societario che comprenda la partecipazione attiva del maggior numero possibile di membri di una comunità; nella comprensione profonda del tessuto sociale in cui si opera; nelle strategie di collaborazione con amministrazioni locali, imprenditoria e associazioni del territorio; nel coinvolgimento dei collaboratori sportivi e degli atleti non solo nel progetto sportivo, bensì nel più importante obiettivo di accrescere il piano di radicamento; nel già citato riconoscimento del ruolo fondamentale della Scuola Calcio e del settore giovanile per rafforzare il legame con la comunità; nella necessità di coinvolgere altre discipline sportive; nel rapporto con il tifo organizzato.
Ognuno di questi argomenti merita un approfondimento a sé. Mi voglio soffermare sulla questione che ritengo centrale: le possibilità di azione diretta dei tifosi all’interno dei Club e le conseguenze di questa innovazione per la stabilità e la sostenibilità del sistema.
Ci sono validi e non periferici esempi nel mondo che stanno dimostrando che è possibile organizzare modelli aziendali applicati al calcio in grado di generare ingenti risorse economiche attraverso lo sviluppo di un progetto operativo mirato e conformato al territorio. Una caratteristica fondamentale di questo modello è infatti l’attenzione alle tradizioni locali e ai bisogni del contesto, finalizzata alla valorizzazione del brand del “calcio locale” nell’ambito di progetti di lungo periodo connessi intimamente all’esistenza stessa della comunità.
Le soluzioni, espresse da più parti, che vedono la creazione di Supporters Trust come l’innovazione capace di risolvere le criticità, devono necessariamente uscire dagli schemi improvvisati e disorganici in cui si configurano, convocati in situazioni emergenziali e immediatamente rimpiazzati alla prima occasione utile. I Supporters Trust costituiti da tifosi a sostegno del Club, per non costituire un’arma a doppio taglio o una mera illusione, vanno messi a verifica:
– nella sostenibilità nel lungo periodo;
– nelle risorse economiche reali che potrebbero generare;
– nello schema giuridico entro il quale possono essere inquadrati (per esempio, in Italia la Cooperativa Sportiva mi pare uno dei modelli più adeguati;
– nella possibilità di costituirli in un medio-lungo periodo, valorizzando come primo step le risorse che il territorio è già in condizione di offrire;
– nei meccanismi con i quali inserirli nel board dei Club e nei processi decisionali;
– nel livello di rappresentatività;
– nel corretto inquadramento con i diversi livelli del tifo, tra cui quello organizzato;
– nella riproducibilità del modello.
La riflessione preliminare deve focalizzarsi dunque sulla composizione del tessuto sociale italiano: il nostro territorio è denso di associazioni costituite allo scopo di raggiungere svariate finalità di tipo sociale. In un simile contesto la promozione di c.d. Supporters Trust potrebbe rivelarsi non essere il primo passaggio da compiere, ma piuttosto il punto di arrivo di un processo teso a valorizzare la cultura della partecipazione popolare a sostegno del Club locale, in quanto finalizzata al miglioramento generale delle condizioni di vita della cittadinanza.
Infatti, un organismo che miri esclusivamente a partecipare al capitale sociale del Club per ottenere una presenza concreta nel board attraverso l’elezione di alcuni rappresentanti rischierebbe, nel tempo, di non essere sufficientemente legato a un fine “istituzionale” in grado di coinvolgere (e, magari, accrescere) l’interesse della comunità nel Club.
Nella sostanza, è necessario creare i presupposti affinché tali organismi possano rappresentare nel tempo una reale risorsa per i Club: pertanto, oltre alle necessarie integrazioni normative di cui si dovranno occupare le Istituzioni Sportive, occorrerà applicare uno schema credibile a tali “associazioni di tifosi” che potrebbero essere sviluppate a partire dell’esistente, ovvero da ciò che l’associazionismo e la mobilitazione sul territorio è in grado di rappresentare e offrire.
L’obiettivo è la creazione di un modello organizzativo dove la sostenibilità economica del progetto sportivo è garantita dalla qualità del radicamento sul territorio e dunque dalla partecipazione della comunità, in forme ben regolate, beninteso a fianco di imprenditori e sponsor.
I principali obiettivi di un progetto di radicamento sono così l’incremento della base sociale di supporto al Club, sia numerica che qualitativa e la canalizzazione delle energie positive del territorio a sostegno del Club. E’ naturale che in questo percorso il matchday non sia tanto l’occasione per vendere le immagini agli smartphone asiatici, ma il momento per eccellenza di valorizzazione della comunità locale e delle sue tradizioni.
Il calcio è cultura. E per questo motivo deve essere protetto in tutti i territori. Se poi i top club vogliono giustamente sviluppare il loro business su scala globale, si organizzino per farlo. Possono farlo creando una Lega autonoma, ma non “però voglio anche giocare in Serie A”. Oppure se non possono permettersi di fare una rottura tanto clamorosa, dovranno cambiare i modelli di business che li hanno portati a indebitarsi e a dichiarare poi che il sistema non sia sostenibile.
Infine, voglio ribadire che se questi top manager sono così poco orgogliosi della storia dei Club che hanno ereditato da essere disposti a proporre qualsiasi cambiamento al gioco pur di vendere gli highlights delle partite alla generazione Z coreana – perché le analisi di mercato che hanno a disposizione gli dicono che quelli nati dopo il 2000 sono indubbiamente destinati a non avere più nemmeno la concentrazione per guardare 90 minuti di partita – ecco, non vuol dire che ci si debba sentire fuori dal tempo e non si possa lottare per un’idea di calcio diversa. Spero di aver dato alcuni spunti e che il dibattito continui in senso pratico.
Contributo di Lorenzo Giudici.