Voglio darvi un consiglio. Ma seguitelo solo se avete poche centinaia di euro in tasca, ne bastano davvero poche, due o tre giorni liberi e soprattutto la voglia di evadere da questo calcio.
Continuate a leggere soltanto se volete scordarvi moviola, cori razzisti e il faccione di Tavecchio. Prendete un volo per il nord della Germania, quasi al confine con la Danimarca, dove il vento freddo taglia la faccia e se per caso doveste trovarvi a guardare il mare con una birra in mano tra un hypster con la bicicletta a scatto fisso e una nonna carica di buste della spesa allora sarete atterrati nel posto giusto: Amburgo, più precisamente quartiere St. Pauli.
Qui il porto mercantile, solitamente irrigidito da container e colate di cemento diventa un ameno spazio di condivisione dove gustarsi un’Astra sulla sdraio.
Altro consiglio: non perdetevi il mercato del pesce alla domenica mattina. Svegliarsi alle sei e mezza non è il massimo in vacanza, soprattutto dopo una serata di quelle giuste, ma non ve ne pentirete.
Sì perché qui è normale fare la spesa e mangiare un panino con le aringhe ascoltando del sano rock’n’roll, suonato magari da signori attempati che il rock’n’roll l’hanno visto nascere.
Non montatevi la testa però, sappiate che non è sempre stato così.
A St. Pauli fin dall’Ottocento i marinai scongiuravano l’alba tra prostitute e bottiglie di rhum e molto più tardi quattro ragazzi di Liverpool cercarono fortuna suonando tutta la notte nei pub, vagamente apprezzati da clienti attirati più da alcool e le risse che dalla musica. Mesi dopo si battezzarono Beatles e il resto è storia.
Se vi sembra un paese dei balocchi siete fuori strada perché la gente da queste parti si è guadagnata ogni metro scendendo in strada grazie a un’antica attitudine alla resistenza. Persino Hitler durante la sua ascesa fu costretto a riconoscere alcuni diritti conquistati da una città che per molto tempo è stata il più importante sbocco commerciale sul Mare del Nord. Amburgo ancora oggi si fregia del titolo di città-stato risalente alla medievale lega anseatica ed è la città più popolosa della Germania dopo Berlino.
Sia ben chiaro però che Amburgo è una cosa e St. Pauli è un’altra, soprattutto nel calcio. Da una parte c’è l’HSV (Hamburger Sport-Verein) con sei campionati vinti, tre Coppe di Germania, due Coppe di lega, una Coppa delle Coppe e soprattutto una Coppa dei Campioni. La squadra dei ricchi, dei vincenti, di quelli che ricordano con un orologio di non essere mai retrocessi dalla Bundesliga.
Lo ricordano soprattutto ai cugini del FC Sankt Pauli, club dalla bacheca vuota e con milioni di tifosi in tutto il mondo. Certo in passato non è mancata qualche epica vittoria come quella del 6 febbraio 2002 contro il Bayern Monaco, fresco vincitore della Coppa Intercontinentale; una data che qui non scorderanno mai e che hanno pensato di immortalare su delle t-shirt celebrative con la scritta Weltpokalsiegerbesieger, grosso modo I vincitori contro i vincitori della Coppa del Mondo.
Gli esperti di calcio internazionale assoceranno il St. Pauli al Jolly Roger, il teschio dei pirati con le tibie incrociate simbolo di resistenza al sistema, ma c’è molto di più di una sfida al calcio moderno. Le ragioni che hanno reso una squadra di quartiere un fenomeno kult vanno ricercate nella storia che si è consumata trent’anni fa lungo il porto. Mettetevi comodi.
In Germania nella seconda metà degli anni ‘80 scoppia il più grande scandalo finanziario del dopoguerra ad opera della Bautechnik, la società edile dell’architetto Dietrich Garski, che spalleggiata dalla Berliner Bank grava sulle spalle dei berlinesi un debito colossale. Intanto l’edilizia fa registrare il 120% dei profitti grazie a prestiti concessi a basso tasso d’interesse mentre la gentrification sfratta il proletariato dai palazzi popolari in favore di nuovi appartamenti destinati alla medio-alta borghesia. A Berlino iniziano occupazioni che a macchia d’olio si diffondono in tutto il paese.
La crisi invade anche Amburgo, la disoccupazione cresce e nel melting pot culturale di St. Pauli trova terreno fertile la lotta dei più deboli. La tana di baristi, prostitute, artisti, studenti, squattrinati e musicisti, storicamente sbirciata con attrazione e sdegno, incarna l’anima di Klaus Stortebeker, il pirata che saccheggiava le navi spartendo le ricchezze con le popolazioni dell’Elba. Si narra che dopo la cattura venne condannato a morte ma propose che gli fosse tagliata la testa mentre camminava e che fosse salvato uno dei suoi uomini per ogni passo percorso da decapitato. Pare ne percorse undici salvando altrettanti membri dell’equipaggio.
Leggende a parte mentre le cariche della polizia si fanno durissime gli autonomen si barricano nei palazzi di mattoni rossi della Hafenstraβe, la via delle case popolari. Il blocco nero si appella all’articolo 14 della Costituzione che recita “La proprietà impone degli obblighi. Il suo uso deve al tempo stesso servire al bene della collettività”. Né più né meno che il Diritto al tetto cantato dai Ministri, tanto per restare in casa.
I cittadini si riuniscono nei bar, nei centri sociali, nei ristoranti e ovunque sia possibile confrontarsi e scacciare la paura, magari ascoltando musica come al Krawall 2000, un pub vicino al Fishmarkt. Capito perché dovete andare al mercato del pesce adesso?
Il messaggio si diffonde per le strade del quartiere anche grazie alla carica adrenalinica del punk, lo stile grezzo e il linguaggio immediato del vento anarchico di Joe Strummer attira cittadini da tutta la Germania che nella protesta sanktpauliana vedono l’unica opzione possibile.
Il governo pretende di lasciare a speculatori e impresari i vecchi palazzoni che si affacciano ai docks del porto ma in questo modo riaccende l’animo mai spento delle proteste portuali di fine Ottocento.
E la squadra? Cosa c’entra la squadra in tutto questo? Il St. Pauli, fino a quel momento si distingue dal HSV Amburgo per i colori sociali atipici (bianco e marrone) e qualche comparsata in Bundesliga, ma le gradinate del Millerntor cominciano a riempirsi di creste colorate e Kutten, così chiamati per via del Kutte, il giubbotto di jeans senza maniche e pieno di stemmi e toppe.
Lo stadio diventa un luogo per fare politica e raccogliere l’entusiasmo del quartiere. I tifosi al grido di “Mai più fascismo! Mai più guerra! Mai più terza divisione!” manifestano un passione crescente fino all’estate del’87 quando un punk soprannominato Doc Mabuse porta allo stadio una bandiera dei pirati cambiando per sempre la storia.
“Ho semplicemente preso una bandiera,
l’ho legata a un manico di scopa e sono andato allo stadio.
La mia bandiera aveva un teschio dei pirati con una benda,
in segno di libertà e di resistenza all’autorità”
Contemporaneamente vengono espulse le correnti neofasciste e xenofobe di estrema destra ancora fortemente presenti in Germania e nasce il Millerntor Roar, la fanzine attraverso cui far sentire la propria voce. La squadra è legata a doppio filo al quartiere tanto che Volker Ipping, portiere dal 1986 al 1992, vive nelle case popolari. All’epoca era consuetudine incontrare i giocatori al pub e parlare con loro della partita bevendo qualche pinta, oggi i tempi sono cambiati ma il cordone ombelicale che lega la squadra al quartiere non è mai stato tagliato e la presenza dei giocatori nelle attività promosse dagli ultras è ancora viva e costante.
Il braccio di ferro tra governo e manifestanti dura anni e alla fine tra tentativi di sgombero, cariche, scontri e ultimatum, il Senato e le lobby dell’edilizia rinunciano a demolire le case restituendole a chi ci per lungo tempo le aveva abitate.
E’ un lieto fine anche se con conseguenze durissime da entrambe le parti e spiega come la scritta Not estabilished since 1910, che accompagna il logo ufficiale del club, non sia del tutto vera.
Quando passeggerete per la Reeperbahn (letteralmente “via dei cordai”) e vedrete il fan shop del St. Pauli sappiate che non è semplice merchandising e che il teschio dei pirati non è un simbolo cool bensì il risultato di una dura resistenza, quella che avrebbe fatto desistere chiunque tranne i manovali e gli operai di Amburgo, quelli cresciuti col vento che taglia la faccia, quelli sulla cui schiena il paese si era arricchito e che si sono ribellati quando il governo ha deciso di sbarazzarsi di loro.
Il passato recente racconta un’altra romantica conquista. A inizio secolo la squadra conosce due retrocessioni consecutive e alla fine della stagione 2002/2003 si ritrova negli inferi della terza divisione ferita da una grave crisi societaria. Ancora una volta sono i tifosi, ereditari dello spirito di lotta della Hafenstraβe, a mettersi in gioco con una campagna fund-raising iniziata con una generosa sottoscrizione di abbonamenti e accompagnata dalla solidarietà di tutto il quartiere. Pub, locali ed esercizi commerciali vendono le bevande maggiorate di 50 centesimi per destinare il ricavato alla società mentre l’Astra, sponsor ufficiale, dona un euro per ogni cassa di birra venduta e i tifosi stampano t-shirt recanti la scritta Retter (salvataggio).
Solidarietà e passione si diffonde in tutto il paese e quando il giorno prima della scadenza vengono depositati 1,95 milioni di euro necessari per iscrivere la squadra al campionato il Jolly Roger diventa un vero e proprio fenomeno mediatico.
Un’altra importante battaglia è stata vinta nel 2010 quando la società si fece attrarre dalle sirene del marketing sfruttando l’approdo in Bundesliga. Inspessirono le reti dietro alle porte per dipingere il logo di un brand, tappezzarono lo stadio di pubblicità ma la cosa peggiore fu installare dei salottini in tribuna in stile lap dance, sponsorizzati da un noto night club della città. Pronti-via partì la protesta dei tifosi che minacciarono un duro boicottaggio, dalle birre all’interno dello stadio alle trasferte, e immediatamente sparì ogni forma di speculazione.
Va precisato che in Germania tutti i club godono di una partecipazione attiva dei propri tifosi dopo che la Federazione, visto il disastroso Mondiale del ’62, si convinse a passare al professionismo per alzare il livello del proprio calcio. Lo fece mantenendo il carattere EV dei propri club, ovvero Associazioni registrate in cui i tifosi-proprietari eleggono il consiglio di amministrazione, e nonostante l’avvento nel 1998 di investitori privati stabilì che il 51% restasse di proprietà dei soci. Niente padri-padroni quindi ma una proprietà democratica dei tifosi.
A St. Pauli però fanno molto di più. Certo non è facile rimanere coerenti tra l’esigenza di rimanere tra i professionisti e il rispetto dello statuto del club. I tifosi della prima ora non condividono certe scelte di marketing ma il St. Pauli resta una goccia sana nel mare del calcio-business.
C’è ad esempio il Fanladen, nato in un container nel piazzale dello stadio e oggi sotto la tribuna centrale, punto di riferimento delle iniziative sociali dei tifosi. E’ a loro che si rivolse l’ex giocatore Benny Adrion, dopo un’esperienza di volontariato a Cuba, per dar vita a un progetto che implementasse l’acqua potabile nei paesi in via di sviluppo. E’ una maglia che ti entra nella pelle, permea la carne fino a scorrere nelle vene.
La lotta a ogni forma di discriminazione non è un sentimento che appartiene solo ai tifosi. Il parroco della chiesa di St. Paul offrì un tetto ai rifugiati politici rifacendosi a una legge medievale che vieta alle forze dell’ordine di far irruzione nei luoghi di culto. E così, grazie a un pass e alla generosità dei cittadini, i migranti si sono inseriti nel tessuto del quartiere, lavorando e giocando per il Lampedusa Hamburg FC.
Chi vi ha parlato di St. Pauli come di una piccola Amsterdam ha avuto una visione distorta. Il rigore dell’architettura nordica è addolcito dalle sponde dell’Elba, i canali non ritraggono un dipinto romantico quanto Venezia ma è semplicemente diverso. Il quartiere è in equilibrio tra la trasgressiva rappresentazione delle folli notti dei marinai e una vena anticonformista ben lontana dal degenero delle luci rosse. Il verde della città si riflette nei parchi dove non serve la cartina per trovare l’uscita, tutto è a misura d’uomo. Come la squadra.
St. Pauli significa aderire a uno stile di vita, preferire perdere ogni stagione un milione e mezzo di euro piuttosto che vendere il nome dello stadio a uno sponsor, contare i voti all’assemblea dei soci e scoprire che manca una scheda, quella di un non vedente, e rifare la votazione.
Significa avere la percentuale più alta di donne allo stadio di tutta Europa, colmare il vuoto fra la curva e la tribuna costruendo un asilo dove lasciare i bambini durante la partita. Vuol dire opporsi a qualsiasi forma di discriminazione, vedere il Jolly Roger tatuato sulle braccia dei tifosi, sugli adesivi ai semafori, sulla fascia di capitan Gonther, sui vessilli dei balconi e sulla bandierina del calcio d’angolo.
Tifare St. Pauli vuol dire accompagnare in trasferta i tifosi minorenni permettendogli di socializzare coi coetanei avversari, significa credere nell’antirazzismo e avere in tribuna numerosi posti in piedi, conservare lo spirito popolare di un gioco sempre più appannaggio delle multinazionali.
Opporsi alla costruzione di un nuovo stadio fuori dal quartiere, avere come presidente il primo omosessuale dichiarato nella storia del calcio tedesco e come responsabile della sicurezza un ex ultras, perché nessuno conosce l’ambiente della curva meglio di loro.
Significa interrompere gli annunci pubblicitari dieci minuti prima del fischio d’inizio per concentrarsi sulla partita e scendere in campo sulle note di Hell’s Bells degli AC/DC. Tifare St. Pauli vuol dire accontentarsi della Zweite Liga piuttosto che prostrarsi alle leggi del calcio moderno.
E se dovesse capitarvi di assistere a una partita e sentire degli sdrammatizzanti olè nonostante il 3-0 per gli avversari non stupitevi, può succedere. Come può capitare di trovarsi dopo una confitta a ballare nella micro pista del Jolly Roger, il pub di fronte allo stadio, sulle note di una playlist punk-rock.
Questo è il St. Pauli, una squadra che gioca in uno stadio dove sono vietati cori razzisti e che conserva lo spirito delle lotte proletarie, un club che mentre il calcio prende la deriva del business preferisce aiutare paesi in via di sviluppo, che vende i pezzi pregiati dopo una salvezza all’ultima giornata e qualche mese più tardi, grazie a qualche prestito e un paio di scommesse, si trova a lottare per la promozione.
Spero di avervi convinto.
Articolo a cura di Sergio Sorce.