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Diamo un calcio al fascismo: la scelta di Matteo Brighi.

 

Il 25 aprile del 2010 è un giorno triste per tutti i tifosi della Roma. All’Olimpico si consuma l’ennesimo dramma sportivo per i giallorossi che, dopo una rimonta sensazionale sull’Inter, sono arrivati in testa alla classifica prima di trovare sulla loro strada Giampaolo Pazzini. La Roma va avanti dopo un dominio incredibile, Totti segna l’uno a zero e si pensa alla goleada su una Sampdoria in corsa per la Champions League ma ferita dalla rete del Capitano. Nella ripresa Pazzini con una doppietta dà lo Scudetto all’Inter e fa piangere mezza Capitale.

Quella stessa domenica, qualche chilometro più a nord-est, a Rimini vanno in scena le celebrazioni dell‘Anpi. È pur sempre il 25 aprile, sono sessantacinque anni che l’Italia è stata liberata dalle forze nazifasciste. In molte piazze d’Italia si festeggia, anche se spesso è la solita cerimonia trita e ritrita: politici locali inamidati che depongono corone d’alloro davanti a un pubblico sempre più scarno di anziani con il fazzoletto dell’Anpi legato al collo. Qualche parola di circostanza e poi via, c’è un banchetto da onorare. A Rimini però non è così, nonostante la nomea di città del divertimento estivo, il capoluogo romagnoli ha una fortissima tradizione partigiana e antifascista. Il 25 aprile del 2010 gli organizzatori decidono di dare un respiro più ampio alla manifestazione, coinvolgendo anche qualche sportivo del luogo.

Matteo Brighi è un centrocampista nato a Rimini e cresciuto nel Rimini. Nell’aprile del 2010 è alla sua terza stagione con la maglia della Roma, con cui rischia seriamente di vincere il suo primo Scudetto. Non sarà così, proprio per via del famoso Roma-Sampdoria in cui Pazzini divenne l’incubo dei lupacchiotti. Il giorno stesso del posticipo tra giallorossi e blucerchiati Brighi però ha fatto una scelta, una decisione che nel mondo del calcio potrebbe attirargli qualche antipatia. Si sa che pallone e politica – soprattutto un certo tipo di politica – non vanno troppo d’accordo, ma Matteo Brighi è un giocatore diverso. L’Anpi di Rimini vuole allargare le celebrazioni del 25 aprile coinvolgendo il calcio e lui dice sì, subito. Sarà il testimonial di ‘Diamo un calcio al fascismo‘.

In Piazza Tre Martiri a Rimini sono stati creati dei campi da calcetto ‘antifascisti‘ per far svagare i bambini della zona. L’Associazione nazionale partigiani italiani ha fatto le cose in grande, ha chiamato due calciatori riminesi doc come testimonial. Uno è Matteo Brighi, che ha prestato nome e volto per l’iniziativa ma non può essere presente per via di Roma-Samp, l’altro è Igor Protti, e non c’è bisogno di spiegare quanto il suo nome caratterizzi un evento del genere.

La scelta di Brighi può sembrare un’arma a doppio taglio ma si inserisce perfettamente nella lista delle decisioni apparentemente anormali, ma in realtà normalissime, che hanno caratterizzato la sua carriera. «Nel calcio rimane fuori chi fa meno casino, e io casino non so farlo» ha detto una volta, e viene da credergli perché solo a vederlo si capisce di che pasta è fatto. Un gran lavoratore di centrocampo, come lo definiscono i giornalisti bravi, uno che ha dei valori. E il suo valore principale è, evidentemente, l’antifascismo. Per questo il 25 aprile 2010 si schiera con Protti a fianco del partigiano dell’ottava brigata Garibaldi Giuseppe ‘Pepo’ Brolli, vera e propria anima dell’evento.

Il calcio non perdona chi esce dal seminato, ma Brighi non sembra curarsene. Non può essere a Rimini ma con la mente e il cuore è lì, a ricordare chi è caduto per mano fascista. Nel periodo in cui c’è chi millanta di togliere la Resistenza dai libri di storia, c’è un centrocampista della Roma che non vuole dimenticare. Il calcio dà un segnale forte, ma i giornali dell’epoca ne parlano sommessamente, riducono la notizia a trafiletti non firmati. Se possono, evitano pure di parlarne. Il 25 aprile 2010 è solo una domenica di calcio, nulla più.

Ma ormai il dado è tratto e Brighi ha mostrato, ancora una volta, di non essere un calciatore come molti altri. Non è un ribelle come alcuni suoi colleghi del passato, ma è uno con la testa sulle spalle. Tra i Novanta e i Duemila viene considerato uno dei più talentuosi giovani italiani e lo vuole la Juventus, ma lui dice no perché deve finire gli studi di ragioneria. Vuole laurearsi e diventare maestro elementare, perché l’educazione è quello che gli piace di più. Purtroppo per lui non ci riesce, ma nel giro di pochi anni almeno si consola indossando la maglia della Nazionale.

Alla Juventus va davvero, poi transita da Bologna, Parma, Brescia e Chievo prima di passare alla Roma e vivere la delusione sportiva più cocente, quella doppietta di Pazzini nel giorno della Liberazione. Si toglie molte soddisfazioni in giallorosso, riceve gli elogi e la stima di un campione come Totti; segna una doppietta in Champions League; conquista i tifosi della Roma, solitamente scettici e abituati a bidoni fatti passare per fenomeni; fa tutto questo senza mai protestare, con la sua espressione a metà tra il tranquillo e il severo. Guadagna poco per essere un calciatore, c’è chi nella rosa della Roma gioca un decimo delle sue partite ma porta a casa in un anno quanto Brighi fa in tutta la sua carriera giallorossa.

Per lui il calcio è quasi un ripiego, anche dopo l’esperienza romana. Atalanta, Torino, Sassuolo, ancora Bologna e infine Perugia, una carriera a sudare sul campo e senza una parola fuori posto. I giornalisti lo descrivono come “uno senza tatuaggi“, una roba un po’ retrò ma che rende l’idea di quanto Brighi sia fuori dal coro. Si diverte a insegnare ai bambini, come quando faceva l’animatore. Ha una sensibilità innata, e non solo coi più piccoli: dopo il terremoto del 2016 ha fatto visita con la squadra a Norcia alle popolazioni colpite dal sisma. Si è fermato a parlare coi bambini e con le persona in difficoltà, regalando maglie e palloni.

Perché Matteo Brighi non sarà estroso come Crujiff o diretto come Lucarelli, ma è uno che ha preso una decisione. Ha scelto da che parte stare e, nel calcio di oggi, anche solo professarsi antifascisti è un gesto che merita tutto il rispetto del mondo. E sinceramente, per quanto ormai – purtroppo – sia diventata un’immagine intrisa di retorica, ci piace pensarlo il 25 aprile in mezzo ai partigiani. Magari cantando pure Bella Ciao.

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