Hanno inventato molte cose su di me. Alcune sono vere, altre no.
Se vi ricordate qualcosa, significa che uno è vivo.
Che uno è entrato e ha giocato. Si è divertito.
(Tomás Felipe Carlovich)
El Trinche, per chi non lo sapesse, è il mio migliore amico. Qualcuno dice che non esiste e quando succede io ci resto male, perché questa storia ci insegna molte cose riguardo al sognare e al realizzare i propri sogni e, per un inconcludente come me, come noi, la storia di Tomás Carlovich, per tutti El Trinche, è una sorta di Bignami dell’esistenza. Andiamo però per gradi.
Il mito inizia con una preghiera laica. “Por favor, es demasiado fuerte”. Fa sorridere perché quella frase la pronuncia el polaco Vladislao Cap, allenatore della Selecciòn, e non solo nessuno era più forte dei suoi ragazzi, ma è rivolta al collega della rappresentativa di Rosario durante un’amichevole.
Perché? E soprattutto, chi è ad essere demasiado fuerte?
L’Argentina di Cap è alla vigilia del mondiale di Germania ’74 e per scaldarsi le gambe decide di fare un salto a Rosario e giocare una partitella con la rappresentativa locale.
Tutto ovviamente è preso molto alla leggera dall’albiceleste (quale nazionale prenderebbe sul serio una partitella con una rappresentativa locale?), ma con il passare dei minuti e dei goal subiti qualcuno inizia ad accorgersi che davanti a loro hanno gente che non scherza, soprattutto un ragazzino con i capelli lunghi. Davanti alla difesa infatti ci gioca il “cinco” del Central (non i campioni del Rosario Central, ma il Rosario de Cordoba, “gli altri”), al tempo in seconda divisone, tale El Trinche Carlovich. Tunnel, dribbling, ripartenze, contrasti, lanci millimetrici e soprattutto 3 goal, tutti e tre nati dai suoi piedi, all’èlite del calcio argentino in 45 minuti.
“Per favore, è troppo forte. Richiamalo in panchina”. Parola del polaco.
In quella partita dell’Argentina contro la selezione di Rosario, in cui io giocai per la Nazionale, Carlovich ci sbaragliò. Non potevamo fermare né lui né i suoi compagni. Perdemmo 3 a 1 solo perché tirarono fuori il Trinche al quindicesimo del secondo tempo. Altrimenti non si sarebbero fermati.” (Aldo Poy)
In Argentina tutti parlano di quel cinco che ha umiliato i campioni argentini e tutti sono convinti di aver trovato una stella.
Matt, credo di aver trovato un genio. Questa volta però suona più come jènio e non gìnius.
La convocazione in nazionale non arriverà quell’anno per ragioni che non ci è dato di sapere (una potrebbe essere che questa storia non è mai esistita), ma 4 anni più tardi.
Millenovecentosettantotto.
In panchina non c’è più el polaco ma Menotti, che ha preso il suo posto, e quei mondiali vanno vinti per forza dal momento che gli argentini giocheranno tra la propria gente e con la propria gente. Nel calcio sudamericano quando si gioca in casa si gioca sempre con, mai solo tra.
Appena saputo di essere il nuovo CT dell’Argentina Menotti si attacca al telefono perché sa benissimo che per fare una squadra perfetta in grado di vincere quei mondiali ha bisogno di Carlovich, perché Carlovich ha il talento naturale di contaminare gli altri con il suo talento. Prende per mano la squadra dalla difesa e la porta in goal. Essere davanti alla difesa significa non fare goal e non salvare goal, in pratica un mestiere infame, e quello era il mestiere di Carlovich.
Per farla breve, la particolarità era che Carlovich sapeva come essere una prima donna anche spalando merda nelle cantine della seconda o terza divisione argentina.
Si racconta che spesso quando giocava per il Central appena toccava palla dagli spalti si sentiva urlare “doble!”, “doppio!”. El Trinche sorrideva ed accontentava quella gente, la sua gente. Aspettava l’avversario e prima un tunnel e poi un altro uno dopo l’altro. Per Maradona anche grazie a quel doppio tunnel fu semplicemente il miglior giocatore di tutti i tempi.
Torniamo però a quel telefono di Menotti. “Tomás, ti va di venire un paio di giorni a Buenos Aires? Qua c’è un mondiale da vincere”.
Tomás decide di partire per la capitale ma ad un certo punto si ferma a pescare e capisce che Buenos Aires, la nazionale argentina e il mondiale non sarebbero stati cosa da lui.
Tomás torna a casa, nella sua seconda divisione argentina, perché capisce che pescare è molto meglio che la nazionale argentina e che un mondiale, anche se giocato da favorita, anche se in casa, non ha niente a che vedere con gli anziani con la canna da pesca in mano sulla riva del Paraná.
“A chi mi domanda perché non sono arrivato chiedo: cosa significa arrivare? Io volevo solo giocare a pallone e stare con le persone che amo, e loro vivono tutte qui, a Rosario”.
El Trinche è il mio migliore amico perché si nutriva di sogni ma non voleva ingozzarsi. L’importante era giocare a calcio e continuare a sognare, non importa con quali colori, in quali campi o in quali competizioni. Certi frangenti e certe realtà inquinano i sogni puri di un bambino di Rosario e i sogni non vanno inquinati perché sono la cosa più importante del mondo.
El Trinche non si presenterà mai alla corte di Menotti scegliendo la pesca abbondante del Paraná, i campetti senza erba delle categorie inferiori e la gente che chiedere el doble perché “il calcio professionale lo annoiava. A lui piaceva divertirsi e non si sentiva a suo agio con nessun compromesso”.
François, personaggio di Houellebecq in Sottomissione, parlando di Huysmans nella sua tesi di dottorato lo definisce “l’uscita dal tunnel“.
Tomás El Trinche Carlovich è la via di fuga alla realtà.
Oltre che il miglior giocatore di tutti i tempi.