Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Storia a puntate di un delirio organizzato – 2.

Eravamo rimasti all’Heysel, un filo necessario, eppure ancora debole per reggere alla forza del tempo che si accumula, e che continua a premere.

Proprio come fecero gli inglesi, quella sera di maggio, ai fianchi del settore popolare juventino. Hooligans del Liverpool, rinforzi dalle frange violente del Chelsea, londinesi dell’estrema destra National Front (tesi dell’allora saltellante numero uno dei reds, Bruce Grobbelaar): difficile, e di debole utilità, ricostruire ora la struttura esatta del disastro.

La frase giusta è “Take an end“, ossia “prendi la curva”: è dal secolo scorso che oltremanica chiamano (chiamavano) così la traversata feroce per arrivare a sfondare negli spalti della tifoseria avversaria. Un’onta da incidere nel cemento dei gradoni altrui, un marchio da apporre in pezzi di stadi che al collasso, spesso, sono destinati anche senza queste iniezioni di follia.

Sheffield, 1989: Hillsborough è un recipiente antico e sprovveduto per ospitare la tifoseria del Liverpool, che sfida in semifinale di Fa Cup il Nottingham Forest. Dal Merseyside arrivano in tanti senza biglietto. Incapacità di contenimento e adrenalina trasformano la fila in ressa cieca, gli accessi diventano tappi pronti a saltare, l’interno di quel vetusto settore arriva subito al limite, e oltre c’è la polizia a impedire qualsiasi sfogo verso il campo, nel nome della sicurezza: 95 morti. Nel nome della sicurezza, il governo di Margaret Thatcher e un’apposita commissione, parola che non a caso fa rima con omissione, troveranno nel tifo la causa della carneficina e si adopereranno per rivoluzionare l’idea di pubblico da stadio in Inghilterra.

Chi è il nostro lettore? Un uomo tranquillo, onesto, amante dell’ordine, che lavora, produce, crea reddito. Ma è anche un uomo stanco, Roveda, scoglionato. I suoi figli invece di andare a scuola fanno la guerriglia per le strade di Milano, i suoi operai sono sempre più prepotenti, il governo non c’è, il Paese è nel caos. Apre il giornale per trovare una parola serena, equilibrata, e cosa ci trova? Il tuo pezzo, Roveda.”

Che partita quel 12 agosto!

Il Chelsea aspetta il Leeds. Il Leeds di Don Revie. Quel Leeds di Don Revie: quello che nelle cinque stagioni precedenti ha vinto un campionato inglese, una Fa Cup e ben 2 Coppe delle Fiere; quello che dal 1964, anno del ritorno in First Division (scordate per un attimo la sigla Premier League), non  è mai andato più giù del quarto posto; quello che in un giorno d’estate londinese viene sconfitto senza appello, 4-0. Lo raccontano queste nitide immagini.

Che partita a Stamford Bridge! Peccato che in tanti dovettero farsela raccontare. Anche chi allo stadio quel sabato ci andò, pur senza entrarci mai. Colpa di una capienza (51.102 posti) inferiore all’attesa di pubblico. Risultato: qualche ragazzino rimasto ferito nella calca, e circa 12mila tifosi blues lasciati a digiuno di quella sbornia di gol, fuori, al di là dei cancelli sbarrati e degli abbracci. Delusi. Esclusi.

Essere tenuti fuori, restare a guardare. L’alter ego della detenzione, in un’ipotetica rappresentazione delle punizioni più dure da infliggere alla condizione umana. Non poter partecipare: capita nel calcio agli espulsi e agli squalificati, ai sostituiti e alle riserve.

Ma non solo. Capita infatti sempre più spesso, soprattutto in Italia, al pubblico. Che siano ultras, tifosi o semplici spettatori, il dato reale è l’aumento costante del numero di quelli che vengono tenuti lontani dallo stadio. Con le sanzioni, a suon di fantasiosi Daspo pluriennali; con schedature divisorie, leggi “tessera del tifoso”, che sarebbero illiberali in qualsiasi altra manifestazione (immaginate una carta dello scioperante…); con arbitrari divieti di trasferta (restrizioni per residenza, a cui seguiranno a breve quelle per ceto sociale e gusti sessuali…) che snaturano l’esistenza stessa della partita intesta come scontro di stili e maniere; con chiusure egemoniache di singoli settori, se non interi impianti, ordinate da prefetti analfabeti e questure sfaticate; oppure, novità dell’ultimo decennio, delocalizzando competizioni più o meno importanti in luoghi esotici dall’alto valore simbolico, lì dove per simbolo si intende quello della valuta pagata dal paese ospitante.

È il caso ultimo della Supercoppa italiana 2015 che la Lega Serie A Tim ha riccamente dirottato a Shanghai, dopo l’avvilente precedente del 2014 a Dubai, in un campo di patate, in una stagione climatica poco amichevole e in un sabato agostano che ha visto l’assenza del cuore del tifo biancoceleste, giustamente poco disponibile a sprecare risorse per sottostare al ricatto sentimentale di dirigenti ottusi:

11.637. Questi i chilometri che l’8 agosto ci divideranno dallo Shanghai Stadium, dove la nostra Lazio si giocherà la Supercoppa Italiana contro la Juventus. Gli ultras della Lazio hanno scelto di non esserci, una scelta presa a malincuore, ma vista come unica opzione possibile. In un periodo storico come questo è impensabile credere che migliaia di tifosi volino dall’altra parte del mondo per una partita di calcio.”

Essere ignorati equivale ad essere estromessi; così come purtroppo morire in mare, annegando nell’affannosa ricerca di un’altra esistenza, equivale a passare la vita a superare gli ostacoli imposti dall’etichetta di “immigrato clandestino”.

#Ventimiglia, definita esattamente non ricordo dove “un confine che non esiste“, vale allora Stamford Bridge quel 12 agosto 1972; ma Ventimiglia vale anche il “divieto di dimora”, istituto molto prossimo a quell’esilio tanto in voga alcuni decenni fa, imposto dalla procura di Bologna a due ragazzi che avevano osato contestare il ministro Madia e che per questo hanno subito l’allontanamento forzato dal loro mondo; e un po’ Ventimiglia è pure la vicenda grosso modo ignota di Pablo Bertolucci, giocatore argentino degli anni Trenta allontanato dal grande calcio per aver guidato la protesta contro la Ley Candado, norma che impediva il libero trasferimento dei giocatori vincolandoli alla volontà dei club, e fondamentalmente perché considerato anarchico e comunista.

Una Ventimiglia, concedetemelo, potrebbe essere persino la precoce e assurda espulsione di Zola decisa dall’ingiusto Brizio Carter al Foxboro Stadium di Boston durante Italia-Nigeria ad Usa ’94. Il fantasista sardo, in seguito Magic Box del Chelsea, non aveva davvero alcuna colpa. Lui, come altri.

I tirati fuori, per l’appunto.

Dedicato a Davide Rosci (nuovamente detenuto nel carcere di Teramo dal 6 giugno 2015).

 

Articolo a cura di @NicKiappa.

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