Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Chi ruba a un ladro, ha cent’anni di perdono.

Diego Armando Maradona appare invecchiato, fuori forma. Solo qualche settimana prima, stava perdendo la sfida contro se stesso nel modo peggiore: un po’ alla volta. Tuttavia, la sua anima in fiamme viene tenuta su questo pianeta – ripetutamente – da coloro che, nella sua vita, ci sono da sempre. È la calda estate del 2005, il Boca ha vinto il Clausura dopo aver dominato anche l’Apertura, scrivendo il suo nome – di nuovo – nella storia del campionato argentino, eguagliando il record del River, fino a quel momento l’unica squadra ad aver vinto sia l’Apertura che il Clausura. L’8 giugno, al Monumental, l’albiceleste di Juan Román Riquelme, Javier Alejandro Mascherano e Hernán Jorge Crespo ha battuto il Brasile dello Joga Bonito al suo apice, in una sfida fondamentale nel girone di qualificazione ai mondiali in Germania, che si sarebbero giocati l’estate seguente. Diego era felice anche solo di averla vista, quella partita. Se non altro, perché qualche mese prima, a febbraio, era in stato di ricovero a Cartagena de Indias, in Colombia, alla ricerca del suo “io imprigionato in un corpo-involucro fuori controllo” che rigettava la vita come fosse un organo trapiantato con troppa fretta. L’aveva vinta quella sfida, riuscendo a perdere oltre cinquanta chili. Questa volta non per il suo paese, ma per Dalma e Gianinna, le sue due figlie. Si era ripreso, di nuovo, ed era ritornato in campo, ma non quello verde di forma rettangolare. A ferragosto, prendendo la stampa in contropiede, debutta come conduttore di un programma televisivo che sembra autocelebrativo ma, in un certo senso, non lo è: La Noche del 10. Verso la fine del mese di agosto, durante una diretta, annuncia senza indugio che «chi ruba a un ladro ha cent’anni di perdono». Sorrido. Gli avevano chiesto se si fosse pentito di aver segnato di mano contro gli inglesi, all’estadio Azteca, al mondiale dell’86, in Messico. Illusi. Maradona non conosce pentimentonapoli

A pensarci bene, quelle sono esattamente le parole che ognuno di noi avrebbe detto, se si fosse trovato nei suoi panni. Non esattamente dei panni comodi da indossare, quelli di Diego Maradona. Del resto, non lo sono mai stati nemmeno per lui, né da bambino, né da calciatore, né da allenatore, né da politico, né da divinità meta-terrena. Con una frase semplice, breve e diretta, un uomo come lui è stato in grado di liberarsi da ogni giudizio che ammorbava la sua coscienza. Almeno fino a quel momento. Chi ruba a un ladro, ha cent’anni di perdono. Chi è il ladro? Quanto conta il perdono? Cosa significa quella frase? Bisogna fare una necessaria digressione, fino al 2 aprile 1982. L’Argentina è sotto la dittatura militare dei generali. Leopoldo Gualtieri, massone e fascista, aveva partecipato, nel 1976, al colpo di stato per rovesciare il governo di Isabelita Peròn e ora, aprile dell’82, è a capo della nazione. Il regime, però, è agli sgoccioli. Il popolo è stanco di anni di desaparecidos e offese alla libertà in senso lato. La leadership ha un disperato bisogno di riacquistare anche solo un briciolo di fiducia e credito del popolo che comincia a stare stretto in un paese fasullo che non gli appartiene da troppo tempo. Il 2 aprile dell’82, allora, il General autorizza l’invasione dell’arcipelago delle Falkland. Le isole, in verità, non sono altro che un agglomerato di scogli, spuntati dalle profondità marine qualche epoca prima, figlie dello scontro di placche oceaniche. Poco importa. Sono pur sempre territori emersi, pur sempre conquiste nazionali.

imm2-a-barcellonaIl problema reale è che le Falkland, o Malvinas – dipende da quale latitudine si guarda la storia – sono un possedimento inglese e, caso vuole che in Inghilterra, Margaret Thatcher stia perdendo consensi e popolarità, a ridosso delle elezioni. Le Falkland sono poco più che scogli in mezzo all’Oceano anche per Sua Maestà, ma perderli in silenzio significherebbe svanire nel dimenticatoio generazionale e veder cancellato il proprio nome dalla storia della Terra di Albione. Navi da guerra, piene di inglesi carichi di odio verso gente che è troppo lontana da Buckingham Palace per averla mai vista prima, vengono dirette a largo dell’arcipelago. Addirittura un sottomarino nucleare. Forse troppo, ma il fallimento non è un’opzione accettabile, soprattutto ad aprile dell’82 e soprattutto avanti le coste del Sud America. È una strage. Mille ragazzi non ancora militari veri vengono assediati in una guerra lampo che ha due obiettivi raggiunti come unici risultati: la riconquista inglese di rocce emerse in mezzo all’oceano e mille madri che piangono i loro figli. Diego, in quei giorni, ha 22 anni. Non sa che sta per passare dal Boca al Barcellona, perché il regime dei militari ha ridotto all’osso anche il calcio e gli xeneizes hanno bisogno di fare cassa. Ha solo 22 anni e sta per lasciare la sua terra ma ha una promessa da mantenere. Una promessa fatta alla sua gente 12 anni prima, in un campo fatto di polvere e speranze, a Villa Fiorito: «jugar y ganar el Mundial». Solo che ora, la sua classe stupefacente si irradia attraverso il dissenso, attraverso la sua anima che brucia di disprezzo. Quel giorno maledetto, il 2 aprile del 1982 è una corrente ascensionale, quella che fa librare nell’aria gli aquiloni. Gli aquiloni più belli.

imm3-a-napoliUna corrente che soffia lentamente, spazzando il cielo sopra Buenos Aires, prima, e quello sopra Barcellona, poi. Soffia, costantemente, alimentando il fuoco fatuo di Diego che intanto non è più un bambino. Ha scelto cosa essere ma, prima ancora, è il destino ad averlo abbracciato, come fosse un soffio di vento che gli accarezza la pelle e i capelli, liberando la corsa di un brivido lungo la sua schiena. Le luci scintillanti e lo sfarzo freddo della grande città capitalista sono come aghi che gli lacerano la mente. Almeno fino al 5 luglio del 1984. La lingua d’asfalto che si presenta avanti la prua del suo volo, partito da El Prat, sembra liquefarsi sotto il sole che assedia Capodichino. La nuvola di fumo bianco che accompagna la frenata dell’aereo si dissolve velocemente, spinta in alto dalla corrente. La stessa che spinge in alto gli aquiloni. La stessa che sta spingendo in alto quello che Victor Hugo Morales, due anni dopo, definirà «aquilone cosmico», in uno stato di trance mistica, spettatore della materializzazione di qualcosa che sta in mezzo, tra storia, vendetta e i sogni. Napoli è la tartassata, è l’offesa, la sminuita, l’insultata, la derubata. Napoli è l’Argentina sotto il regime dei militari “neri”, Napoli è l’interminabile lista di desaparecidos, Napoli sono le Malvinas. Diego non può più controllare l’espansione del suo ego. Il suo petto sembra rigonfiarsi troppo ad ogni respiro, colmo di qualcosa che è nato nella Villa, che è cresciuto alla Boca e che è cominciato a bruciare a Barcellona. Il 5 luglio dell’84, allo stadio San Paolo ci sono più di sessantamila persone accorse per acclamare Diego. È qualcosa che senti e che non riesci a spiegare, qualcosa che ti porta a pensare che ‘devi esserci, perché lui è quello che porterà il giusto sopra tutte le cose. Disse che voleva «diventare l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché loro sono come ero io a Buenos Aires».

imm4-con-evo-moralez

Così sarebbe stato. Ma prima di Napoli, c’è l’Argentina. Al Mondiale in Messico dell’86, l’Albiceleste, la Nuestra, non è tra le favorite. Ci sono Jorge Luis Burruchaga e Jorge Alberto Valdano Castellano che hanno “qualcosa” in più degli altri. Troppo poco per competere con chi detiene il potere nel mondo allegorico che è il calcio. Troppo poco, se non ci fosse stato in squadra Diego Maradona. In ogni partita, el Diez è letteralmente un’entità superiore, qualcosa che si contrae e si espande, sconfinando dal rettangolo di gioco. Diego osa, spinge, arremba, a denti stretti, senza paura. È stato sempre così, sin dai tempi delle cebollitas, all’Argentinos Junior, quando col pallone rubava le coordinate nella storia del calcio giovanile argentino ai più forti, ai più ricchi, per regalare la gloria a chi era come lui, a chi veniva dalle villas, dai campi in terra battuta dove l’erba, forse, non è mai cresciuta davvero. È stato sempre così, anche nella sua seconda vita, quella che gli dei del pallone gli hanno concesso per ringraziarlo per il Fùtbol, quando scelse di schierarsi apertamente contro il regime militare, riassunto con disprezzo nella persona di Jorge Rafael Videla Redondo, definito «vergogna nazionale». È stato sempre così, come quando al Vertice dei Popoli, a Panama – organizzato come forma di boicottaggio al Vertice delle Americhe di Mar de la Plata – era al fianco dei leader rivoluzionari anti capitalisti e anti americani di tutto il Sud America. Mentre Evo Morales, Hugo Chávez, Silvio Rodríguez, Adolfo Pérez Esquivel e le Madri di Plaza de Mayo urlavano il loro dissenso, Diego ‘alientava’ la folla mandandola in delirio, indossando una maglietta con su scritto “Stop Bush”.

È sempre stato così e lo fu soprattutto il 22 giugno dell’86, nel regalo che il destino fece a Maradona, sotto forma di quarto di finale. Contro l’Inghilterra. La partita del riscatto riassume perfettamente cosa è stato e cosa continua ad essere Diego Armando Maradona. Impossessato dai fantasmi argentini, Diego carica i compagni di squadra tanto da trasformarli in demoni. Lui pretende la vittoria e se non qualcuno non se la sente, non fa alcuna differenza, perché lui gli verrà in aiuto, lui verrà a portare ordine in mezzo caos. La “Mano de Dios” e gli “Undici Tocchi del Barrilete Cosmico” sono la vendetta e il superamento delle paure. Sono Diego che alza il pugno al cielo per i desaparecidos e per las Malvinas. Sono Diego al fianco di Fidel e dei leader al Vertice dei Popoli di Panama. Sono i mezzi che giustificano il fine. Poco importa se l’arbitro Ali Bennaceur non ha visto il tocco di mano, poco importa se il mondo che stava a guardare ha poi sfoderato la sua artiglieria di falso buon senso e costruita moralità di facciata. Non esiste una sola strada prestabilita per sopraffare chi sopraffà. Lo avrebbe detto, anni dopo, che «chi ruba ad un ladro, ha cent’anni di perdono», quasi prendendosi gioco di tutti quelli che avevano già scritto un finale che non avrebbero mai letto. Maradona contro l’Inghilterra a Messico 86 è lo stesso che ha ribaltato la leadership del calcio italiano. Lo ha fatto a Napoli, maledetta città lontana dall’italianità preimpostata, portandola sul tetto d’Europa.

Football - 1986 World Cup - Final - Argentina v West Germany - Azteca Stadium - 29/6/86 Argentina's Diego Maradona lifts the World Cup trophy Mandatory Credit: Action Images / Sporting Pictures / Tony Marshall CONTRACT CLIENTS PLEASE NOTE: ADDITIONAL FEES MAY APPLY - PLEASE CONTACT YOUR ACCOUNT MANAGER

Diego Armando Maradona è lo sgambetto ai «cattivi del mondo». È l’uomo che è andato in Paradiso e all’Inferno nella stessa vita, per far ritorno da entrambi. È l’aquilone cosmico che vola alto, incantando i bambini e gli adulti, perché il tempo non esiste nel mondo del Diez. Diego Maradona è la maglia numero 10 senza colore e senza nazione che ognuno di noi ha sognato di indossare. Lui è la soluzione, la via d’uscita, la salvezza, l’alternativa. Maradona è ognuno di noi col cuore che pompa sdegno per ciò che non è giusto. È ognuno di noi che mastica amaro, immaginando il sapore dolce del riscatto, che arriverà. Oh, potete contarci che arriverà! Maradona è Buenos Aires, è la Villa, è l’Argentina in lagrime che guarda tutti dall’alto e che prega col fiato sospeso durante le notti cubane. Diego è Napoli, è il meridione d’Italia, è il sud di ogni nord del mondo. È il sorriso di chi dimentica di non aver niente, perché grazie a lui, per qualche secondo, ha avuto tutto. Diego è «ne mettemmo cinque all’avvocato Agnelli». Diego è «Bush hijo de puta!» ma è anche «Platinì, que quieres?». Maradona è chiunque riesca a prenderti per mano lungo il tuo cammino, perché fuori è buio e, in compagnia, fa meno paura. Maradona siamo noi che riusciamo a fare i nostri piccoli miracoli quotidiani. Siamo noi che sorridiamo, senza soldi e senza santi in paradiso. Diego Maradona è la volontà fortissima che prevale sopra ogni cosa. Diego Armando Maradona è il sangue e la carne, il cuore che batte e lo stomaco che si chiude. Diego siamo noi che rubiamo a chi ruba. Diego siamo noi con cent’anni di perdono.

 

di Saverio Nappo

Next Post

Previous Post

11 Comments

  1. Nicola Gennaio 31, 2017

    Un’emozione indescrivibile. Grazie per questo articolo

  2. Peppe 46 Gennaio 31, 2017

    Semplicemente da brivido e persino commozione.

  3. Mario Righetti Gennaio 31, 2017

    Ho la pelle d’oca!

  4. ciro Gennaio 31, 2017

    Diego é la rivincita

  5. otravez Febbraio 5, 2017

    Grande…complimenti.
    Grande Diego…

  6. Francesco Novembre 25, 2020

    Meraviglioso

  7. Eugenio Novembre 26, 2020

    Un pezzo emozionante, un un contributo autentico che riassume l’uomo, il calciatore, il mito.
    Racconta del genio e dell’umanità, della resilienza e del riscatto, delle discese e delle risalite. Insomma racchiude un po’ della storia di ognuno.
    Difficile non emozionarsi.
    Grazie

  8. Jacopo Novembre 26, 2020

    Mamma mia che articolo. Complimenti. E pensare che si tratterebbe di un articolo su un personaggio sportivo, un calciatore. Articolo meraviglioso. Impressionante pensare a quello che il Dio del calcio ha fatto negli anni 80 per le comunità indifese, paragonato a quello che i top player moderni fanno oggi.

  9. Luca Ottobre 11, 2022

    Ogni tanto torno a rileggere questo articolo per emozionarmi sempre

  10. Stefano Luglio 5, 2023

    Il più gol più significativo di un gioco in cui si usano i piedi è uno con la mano! L’ossimoro che ognuno di noi perdona per più di 100 anni, grazie

  11. Stefano Luglio 5, 2023

    Il gol più significativo e indelebile in un gioco in cui si usano i piedi è fatto con la mano! L’ossimoro della vita che merita più di 100 anni di perdono, grazie

Leave a Reply

© 2024 Minuto Settantotto

Theme by Anders Norén