Basiti, quei ventidue uomini, che in quel momento avrebbero dato chissà cosa per essere da tutt’altra parte piuttosto che in quella stanza d’albergo semi buia, si guardano fra loro.
“Avete voglia o no? Al Brasile servono tre gol per qualificarsi. Provate solamente a beccarvi quattro gol, o più, e delle vostre quattro mura non avrete che un lontano ricordo. E i vostri cari? Eh, i vostri cari…”
Gli sguardi, persi e inesistenti, cercano disperatamente un punto nel vuoto che possa dar loro conforto. Ma niente. La porta si chiude alle loro spalle. Adesso che i “bravi” di Mobutu Sese Seko sono andati via, qualche lacrima solca il viso di alcuni dei ragazzi dello Zaire, fra cui il bomber della nazionale, uno degli attaccanti più forti del continente africano dell’epoca e non solo: Pierre Ndaye Mulamba.
Questo pezzo tratterà la figura proprio di quest’ultimo, per molto tempo dimenticato e costretto a vivere per diversi anni in povertà e sofferenza.
A 15 anni viene subito notato e preso dal Renaissance du Kasai, club col quale conquista anche la nazionale nel 1967, anche se non sarà selezionato per la Coppa delle Nazioni Africane dell’anno successivo. Nel frattempo lavora come insegnante ma i suoi gol valgono la chiamata del più famoso AS Bantou: nel 1972 vi si trasferisce, diventando un calciatore professionista a tutti gli effetti. L’anno seguente viene acquistato dall’AS Vita Club, squadra della capitale Kinshasa. La consacrazione definitiva arriva nel 1974: come già anticipato, Mulamba si consacra bomber della Coppa d’Africa e conduce lo Zaire alla vittoria del trofeo.
Rientrati in patria con la Coppa, accolti da un popolo in festa, i calciatori vengono ricevuti da Mobutu in persona che, soddisfatto del successo e in vista della rassegna iridata, promette loro una macchina e una casa in uno dei quartieri più importanti di Kinshasa ma, soprattutto, una cospicua somma di denaro. Denaro che cambierebbe decisamente in meglio le vite dei protagonisti e delle loro famiglie. Intanto la partenza per la Germania si avvicina ma di quel denaro promesso, nemmeno l’ombra. Arrivati in terra tedesca, gli zairesi debuttano contro la Scozia, perdendo due a zero ma giocando in maniera dignitosa. Dei soldi non si sa ancora nulla, così non può continuare: i calciatori minacciano di non scendere in campo nel secondo match da disputare con la Jugoslavia. Uno sciopero in piena regola contro il dittatore in persona. Quest’ultimo però non si fa attendere e fa sapere ai ventidue che qualora non dovessero scendere in campo, non rivedranno le proprie famiglie al ritorno in patria. La minaccia non è da poco. Non resta che andare a giocare quella maledetta partita di pallone. Finirà 9-0 per la Jugoslavia, partita nella quale verrà espulso Pierre Ndaye Mulamba, ma solo per un’assurda svista dell’arbitro dell’incontro, il colombiano Omar Delgado: il fallo era stato commesso da Mwepu Ilunga, il quale lo ammise pure, ma non bastò perché la decisione del direttore di gara era già stata presa.
L’ultima partita con il Brasile, terminata 3-0 per i verdeoro, è entrata nella storia proprio per il gesto compiuto da Mwepu, spinto da una celata disperazione a cui seguirono le risate inconsapevoli del mondo intero.
La nazionale africana torna a casa, distrutta a livello sportivo e psicologico. Solo pochi mesi prima vennero accolti come eroi, adesso sono quasi persone indesiderate. In un Paese controllato totalmente da un dittatore, c’è poco da aspettarsi. Mulamba, nonostante nessun gol segnato, non passa inosservato e viene contattato dai francesi del Paris Saint-Germain ma ancora una volta Mobutu si intromette e vieta al bomber, così come a molti altri giocatori, di lasciare lo Zaire; inoltre, decide di tagliare pesantemente i fondi destinati alla crescita del calcio nazionale, un tempo suo cavallo di battaglia, ora semplicemente un giocattolo che non funziona più. L’AS Vita Club rimane dunque la casa calcistica di Mulamba fino al termine della sua carriera nel 1988. Sette anni prima, nel 1981, riesce a conquistare la finale della Coppa dei Campioni africana, perdendola contro gli algerini del JS Kabylie. Appese le scarpe al chiodo, il passato dell’ex bomber della nazionale viene poco a poco dimenticato. Il presente assume la forma di un lavoro come semplice funzionario.
Gli anni passano, ma nel 1994 la storia calcistica sembra aver capito l’errore di aver trascurato un ex attaccante tanto amato e dal talento importante. La Confederazione Calcistica Africana invita Pierre a Tunisi: lo aspetta una medaglia come ricompensa alla sua carriera e come riconoscimento di miglior cannoniere della storia della Coppa d’Africa. “Allora si son ricordati di me”, avrà pensato Pierre Ndaye.
Il rientro in patria, con una medaglia che lo rende così orgoglioso, porterà in dote solo tanta sofferenza. Il ministro dello Sport zairese, per conto di Mobutu (purtroppo ancora al potere), fa sapere a Ndaye che la medaglia deve essere consegnata alle autorità. Ovviamente l’ex attaccante non ci sta, considera quell’oggetto di valore un riconoscimento importante per la sua carriera, e vuole onorarlo per sé e per la sua famiglia. La sera stessa, poche ore dopo essere stato avvertito dal ministro, viene aggredito da soldati nella sua stessa casa. Il figlio primogenito di undici anni viene ucciso davanti ai suoi occhi. I soldati colpiscono anche Pierre, ferendolo gravemente ad una gamba. Poco dopo viene preso e portato su un ponte, dal quale viene gettato. Lo credevano morto. E invece…
Invece per miracolo è ancora vivo, in condizioni gravissime. Viene recuperato da bambini della zona e in seguito passerà diversi mesi in ospedale; qualcuno lo riconosce, viene chiamato “le grand joueur”, il grande giocatore. Le sue condizioni sembrano migliorare, ma ormai è chiaro che lo Zaire gli sta troppo stretto: è costretto a lasciare il Paese. Questo significa vestire i panni del rifugiato, lasciare la moglie, la figlia, gli amici. Il Sud Africa lo accoglie, prima Johannesburg, poi Cape Town, che sarà la sua nuova “casa”, sebbene una vera e propria casa non ce l’abbia: trova riparo nelle townships, cercando di racimolare qualche soldo come custode di parcheggi.
Il 1998 è l’anno della Coppa del Mondo in Francia, ma è anche l’anno della ventunesima edizione della Coppa delle Nazioni Africane in Burkina Faso. Lo Zaire, che nel frattempo era diventato Repubblica Democratica del Congo**, approda in semifinale, affrontando il Sud Africa. A quanto pare un giornalista congolese mette in circolo una notizia che probabilmente destabilizza e non poco i calciatori della nazionale dei leopardi: Pierre Ndaye Mulamba è morto. Prima della semifinale, che poi vedrà la sconfitta del Congo, viene osservato un minuto di silenzio in onore della leggenda congolese. La notizia sarà smentita qualche giorno dopo, si apprende che Ndaye vive come un mendicante nelle townships di Cape Town e la FIFA decide di donargli sette mila dollari; purtroppo, nemmeno quei soldi giungeranno a destinazione.
La sua vita va avanti, in qualche modo. Viene a sapere della morte di sua moglie in Congo. Nel 2001 però conosce una donna, Nzwaki Qeqe: lavora nell’ambito della protezione dei rifugiati, ed è così che le loro strade si incrociano. In seguito, Nzwaki dichiarerà: “Quando lo incontrai, non ero a conoscenza del passato di Ndaye, del fatto che sia stato un grande calciatore. Dopo ho realizzato che, essendo una leggenda del calcio africano, sarebbe potuto diventare un modello per i giovani rifugiati, in modo da spingerli a scoprire il calcio”. I due poi si sposeranno.
Nel corso degli ultimi dieci anni finalmente qualcosa si è mosso e la storia di Mulamba è salita alla ribalta. I riflettori di tutto il mondo si sono accesi ancor più sul Sud Africa dopo la notizia dell’assegnazione della Coppa del Mondo di calcio del 2010 proprio al Paese africano; un crescendo di attenzioni che ha incluso anche Pierre Mulamba, che viene invitato in diversi eventi riguardanti la grande manifestazione calcistica che, per la prima volta nella storia, approda in Africa.
“Sono felice in Sud Africa. Lì sono libero”. Adesso vive in una casa, una vera casa a Cape Town, con sua moglie e il figliastro. Allena calciatori dilettanti, perché del calcio non può fare a meno: il pallone lo ha reso una leggenda, ora gli riconsegna, in parte, ciò che ha perso in anni di oblio e miseria.
*Claire Raynaud, La Mort m’attendra, Paris, Éditions Calmann-Lévy, coll. « Biographies », 2010 (ISBN 9782702141137)
** Nel 1997, dopo anni di crisi interne ed un principio di guerra civile che in seguito attanaglierà l’intero Paese, Mobutu, malato di cancro e pressato dai ribelli guidati da Laurent-Désiré Kabila, è costretto a fuggire in Marocco. Morirà nel settembre dello stesso anno. Una pagina nerissima della storia dello Zaire si chiude, un’altra non certo migliore viene aperta.
***Makela L. Pululu, Forgotten Gold, RD Congo/South of Africa, 2010 – 90 min.