Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Lo scontro di piazza è uno sport completo – vol. 1

Alle Olimpiadi di Città del Messico,
dove Tommie Smith e John Carlos porteranno un guanto nero,
Raimondo D’Inzeo porterà la bandiera italiana.

Roma, 1960
7 settembre

Non mi lascio mettere nel sacco da questa presa in giro della gara,
questo correre e cercare di vincere,
questo trottare per un pezzo di nastro azzurro.

«Piazza di Siena è l’harem dell’ippica olimpica. Tra i cavalli iscritti al Gran Premio ad ostacoli, 22 sono le femmine, 102 i maschi. Ventidue odalische sono vigilate da centodue eunuchi: tutti i maschi, infatti, sono castroni. Se gode il possesso della sua virilità il cavallo è bisbetico, bizzarro, volubile davanti all’ostacolo. Bisogna castigarlo nelle sue prerogative somatiche per averlo, come si suol dire, alla mano, per educarlo al salto, per costringerlo alla disciplina del morso, della redina e dello scudiscio».
Bruno Roghi, direttore del Corriere dello Sport, è cronista d’eccezione per il suo giornaledel concorso individuale di salto a ostacoli, la gara che assegna le medaglie più importanti nell’equitazione ai Giochi olimpici. Roghi non è uno qualunque: ha diretto per ben due intervalli di tempo (1936-43 e 1945-47) la Gazzetta dello Sport. È lui che ha raccontato in prima persona l’orgoglio patrio per la spedizione italiana alle Olimpiadi hitleriane del ‘36: «Se venimmo a Berlino fu anche, e soprattutto, per dimostrare alle genti di ogni razza che il nemico più turpe, le Sanzioni, lungi dallo spezzarci le ossa, noi l’avevamo affrontato, smascherato, battuto nello Stadio dell’Onore, per la gloria dell’Italia». D’altro canto Roghi, accademico e pluricelebrato “maestro” del giornalismo sportivo italiano, non ha mai lesinato il proprio sostegno al regime di Mussolini, ottenendone nel 1937 pure una medaglia: la Croce di guerra al valor militare quale corrispondente di guerra in Eritrea per la Rosea, premiato perché «partecipò con le nostre più ardite colonne di attacco ad importanti operazioni militari, dando costante prova di coraggio e sprezzo del pericolo».
Divagazioni secondarie, forse. In una mattina di fine estate romana, Roghi si ritrova a narrare uno dei grandi trionfi azzurri di quelle Olimpiadi che celebrano la veloce rinascita dell’Italia uscita distrutta “solo” quindici anni prima dal conflitto bellico e dal fanatismo totalitario fascista:  Raimondo e Piero D’Inzeo, i fratelli invincibili, reduci dagli ultimi due gradini del podio nel ‘56 (Giochi di Melbourne, ma le gare d’equitazione furono disputate a Stoccolma per le leggi australiane sull’importazione dei cavalli), si superano e conquistano in casa l’oro e l’argento nella gara a ostacoli. Impettiti e fieri all’inno di Mameli, «due soldati al servizio della bandiera dell’Olimpiade», come li ricorda Roghi. Fratelli d’Italia, come li ricordano tutti. È il 7 settembre 1960.

Genova, 30 giugno 1960 – Archivio Storico L’Unità

Roma, 1960
6 luglio

Qual è il nostro sport?
Correre. Li vedi quei cavalli? Devi esse più veloce!
Ma perché, i cavalli so’ cattivi?
No, regazzì, er problema nun so’ i cavalli, er problema è chi ce sta sopra.

«In quei giorni scoprimmo il sampietrino e la breccola. Il primo è pesante, e per lanciarlo bisogna fare un ampio gesto del braccio alto sopra la spalla, come il lancio del disco. La breccola invece si lancia con un gesto secco, uno scatto all’altezza della spalla».
ESSE a casa non vuole starci. Ci sono mille motivi per buttarsi in strada con gli altri, e l’afa che ti appiccica i vestiti addosso è solo il più banale. C’è una rabbia che fibrilla, da giorni, da mesi e anche da più. Da quando sono tornati i fascisti al governo. Non “fascisti” per fare o per modo di dire, proprio quelli ufficiali: ad aprile il governo Dc Tambroni ha ottenuto la fiducia grazie al Movimento sociale italiano; e lo stesso Msi ha pure organizzato il congresso nazionale a Genova, medaglia d’oro della Resistenza.
I grandi si incazzano da grandi perché loro, ma soprattutto i loro padri, i fascisti li avevano sconfitti e costretti ad arrendersi – quelli che non avevano potuto catturare o giustiziare – e ora se li trovano al potere: in Parlamento o a dirigere l’ordine pubblico. I giovani come ESSE, invece, si incazzano da ragazzi, com’è naturale. Così riprendono la rabbia dei loro vecchi e la mescolano a un più esplosivo sentimento di ribellione all’esistente. Sono ribelli, sì: contro lo stato di polizia, per nuove libertà da conquistare, stanchi del soverchiamento autoritario, sfruttati dal padrone al lavoro, ignorati, senza il diritto di sognare nulla di meglio che una difficile sopravvivenza. Tutti, sia gli adulti che i ragazzi, sanno degli scontri che hanno infuocato Genova nelle settimane precedenti.
A inizio giugno, nel capoluogo ligure, le rappresentanze locali di Pci, Psi, repubblicani, radicali, sindacati, studenti, portuali e altri operai hanno dichiarato di voler opporsi alla provocazione missina nella città che aveva dato il via alle insurrezioni del 25 aprile ‘45. Sono seguiti giorni di cortei e botte. Il 28 giugno, davanti a 30mila persone, Pertini urla forte che il congresso Msi non dovrà farsi: u brichettu, il cerino, farà divampare tutto. Il 30 è sciopero cittadino. L’atmosfera è tesa, ma non accade granché fino al tardo pomeriggio, quando a piazza De Ferrari si assiepano in tanti: iniziano a provocare l’ingente spiegamento di forze dell’ordine, questi reagiscono con idranti e cariche di alleggerimento. Non conta chi parte per primo, conta ciò che accade dopo: partono camionette e lacrimogeni, ma i manifestanti sono sempre di più e sempre più giovani, armati di pietre, bottiglie, spranghe, travi e mattoni di un cantiere nei pressi. Dalle finestre dei caruggi volano vasi. Gli agenti le prendono, qualcuno finisce nella fontana, qualcun altro è fatto prigioniero e scambiato con gruppi di fermati. Un paio di jeep vanno a fuoco. Se la conta si ferma a circa centosessanta poliziotti feriti è perché dirigenti, sindacati e certi vecchi partigiani, a fatica, calmano le acque. Il congresso Msi, alla fine, non si farà.
Oltre che con gli arresti di Genova, però, nei giorni seguenti governo e forze di polizia reagiscono reprimendo con violenza le proteste scoppiate in tutta Italia, facendo ampio ricorso alle armi da fuoco. La strage più grande è a Reggio Emilia: il 7 luglio 1960 cadono uccisi cinque operai.

È in questo contesto che, il giorno prima, verso le 19, ESSE cammina fino alla Piramide Cestia. Dovrebbe esserci un comizio antifascista a Porta San Paolo, lì dove il 10 settembre ‘43 un ultimo baluardo di «cittadini di ogni ceto e soldati di ogni arma» – come recita la targa in ricordo – aveva tentato l’estrema e purtroppo vana difesa di Roma dall’occupazione nazista. Il 5 luglio però, ossia qualche ora prima della manifestazione, arriva il veto della questura. Gli organizzatori confermano comunque la chiamata a raccolta. Serve un segnale. Le autorità lo sanno e schierano colonne di agenti. C’è anche la polizia a cavallo.
Un mercoledì torrido, fa caldo pure per i cavalli. ESSE e gli altri giunti da Testaccio perlustrano la zona. Sono un bel gruppo, qualcuno non è nemmeno ventenne, non sono allenati alle giornate buone per diventare cronaca e storia nazionale. D’altronde chi lo è? Le cose capitano quando non c’è più margine per evitarle. ESSE e gli altri ragazzi avvertono come una cappa, una calma chimica apparente destinata ad infiammarsi alla prima scintilla. È così: partono le cariche delle forze dell’ordine per liberare l’area. Nel piazzale ci sono anche i parlamentari, non fa differenza, nella mischia vengono colpiti anche loro: l’onorevole Lizzadri di lì a poco porterà alla Camera la giacca insanguinata del deputato socialista Borghese. Donne, uomini e ragazzini scappano dagli idranti, dalle camionette, dai soliti gas lacrimogeni e soprattutto dai carabinieri a cavallo.
A ordinare e guidare la carica è il capitano Raimondo D’Inzeo, su un altro cavallo c’è suo fratello Piero. Sono due grandi atleti, nobili esponenti della cavalleria tricolore, due mesi dopo e cinque chilometri più a nord saranno oro e argento olimpico nella gara individuale di equitazione, ma quel 6 luglio non ci sono ostacoli, solo persone da disperdere o fermare in ogni modo. Dirà L’Espresso qualche giorno dopo: «Per molte ore, in quelle zone, chiunque non aveva la cravatta veniva fermato, interrogato, spesso bastonato».
I ragazzi, però, non si limitano a correre e ad esercitare la padronanza degli spazi per complicare la vita alle guardie a cavallo, rifugiandosi tra le vie di Testaccio e di Trastevere che conoscono a memoria; rispondono, pure se dal Pci e dall’Anpi c’è chi urla “basta” o invita alla calma. Mettono su barricate, si spartiscono in gruppi per fugaci assalti alle jeep. Polizia e carabinieri sono in difficoltà, dai palazzi la gente rientra in strada, i portoni diventano il rifugio temporaneo di chi ha ingaggiato una battaglia improvvisata e orgogliosa, tenendo testa agli atleti della repressione.
È solo a sera inoltrata che si chiude la contesa di quel 6 luglio. Non arrivano medaglie, ma rastrellamenti di polizia negli androni dei palazzi, nei cortili, ovunque ci sia qualcuno da pestare e da portare in caserma. Insieme ai carabinieri, e ai cavalli.

Archivio Storico Beni Culturali Città di Roma da https://polizianellastoria.wordpress.com/2016/07/17/la-rivolta-di-genova-gli-scontri-di-porta-san-paolo-la-strage-di-reggio-emilia-1960/


Fine prima parte

Questo pezzo è dedicato alla memoria di Salvatore Ricciardi.

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