“Ma che cazzo dici…”
“Sono sicuro, te lo giuro!”
“Commissario tecnico? Lui? Quando mai ha allenato?”
“Botafogo, una decina di anni fa.”
“È un giornalista, Cristo! Un collega!”
“Da oggi è l’allenatore del Brasile, invece…”
Quando João Saldanha viene nominato ct della Seleçao, la gran parte dei brasiliani lo conosce per tre cose: gli articoli al vetriolo dove parla di razzismo, droga e omosessualità nel calcio verdeoro, il carattere fumantino e la fede comunista. Saldanha è uno dei giornalisti sportivi più famosi del Paese, una specie di filosofo prestato al pallone. Ha avuto una breve carriera da calciatore, interrotta da un brutto infortunio alla caviglia, e ha guidato dal 1957 al 1959 il Botafogo di Mané Garrincha, Didi e Nilton Santos, conducendolo alla vittoria nel Campionato Carioca del 1957; quando gli hanno venduto lo stesso Didi al Real Madrid ha salutato e se n’è andato.
Il suo temperamento focoso e imprevedibile è quasi leggendario: nato nel Rio Grande do Sul, lo stato dei gauchos, fin da giovane si dimostra gaudente, sfrontato e senza peli sulla lingua. Ha maniere spicce e modi rudi per risolvere le controversie; dicono che giri spesso con il ferrinho, una pistola di piccolo calibro, e in effetti nel 1967 ha sparato un paio di colpi in aria davanti a Manga, portiere del “suo” Botafogo, dopo averlo accusato di essersi venduto la partita col Bangu.
Saldanha, tuttavia, non è solo un tipo stravagante, amante delle donne e con lo spirito del cowboy. La sua fede politica è ciò che lo caratterizza da quando si è iscritto, appena maggiorenne, al Partito Comunista Brasiliano. Da allora ha lottato in piazza, guidato proteste e scioperi, tenuto comizi, approfittato dei frequenti viaggi all’estero per raccogliere fondi per conto del PCB e si è perfino beccato una pallottola in un polmone, come conseguenza di uno scontro con la polizia scoppiato al Primo Congresso brasiliano per la Pace. Come inviato ha seguito la Rivoluzione culturale di Mao (insieme al quale si è fatto una foto), la guerra di Corea e – così dice lui, ma sembra una delle sue esagerazioni – lo sbarco in Normandia al fianco del generale Montgomery.
Nel 1969 il Brasile è allo sbando, sia dal punto di vista politico che da quello calcistico. L’antico nemico di Saldanha, Getúlio Vargas, è morto da tempo, ma al suo posto c’è un dittatore anche peggiore: il generale Emílio Garrastazu Médici. La nazionale è invece reduce dal disastro del Mondiale inglese del ’66, dal quale è stata eliminata al primo turno anche grazie ai colpi proibiti rifilati a Pelé. Il caos regna sovrano, i Mondiali del 1970 si avvicinano e nessuno sembra avere la soluzione giusta. João Havelange, il presidente federale che sarà poi padrone della FIFA per 20 anni, ha un’idea. Per la nazionale serve una figura di carattere, qualcuno in grado di operare scelte scomode e di reggere le critiche; chi meglio di un giornalista con un passato da allenatore per evitare il solito gioco al massacro della stampa brasiliana? Ecco allora che João Saldanha viene nominato ct del Brasile. Alla base della scelta di Havelange c’è anche il riconoscimento della grande competenza calcistica e dello spirito combattivo dell’uomo, ma chiaramente quella decisione prende di tutti di sorpresa. E Saldanha, fedele al proprio modus operandi, estrae metaforicamente il ferrinho e spara subito una dichiarazione clamorosa: davanti agli ex colleghi, riuniti per la sua presentazione ufficiale, tira fuori dalla tasca un biglietto spiegazzato; sopra ci sono scritti i nomi degli undici titolari e delle loro riserve per México ’70, comunicati un anno e mezzo (e sei partite di qualificazione) prima del calcio d’inizio ufficiale del torneo.
Inizia in questo momento uno dei periodi più frizzanti e incredibili della storia del calcio brasiliano. Saldanha è inarrestabile, dento e fuori dal campo. Risolve il dilemma principe della Seleçao (Tostão o Pelé?) schierando entrambi i grandi 10 dell’epoca, con Tostão centravanti di manovra e Pelé più arretrato e libero di svariare; ma non è finita qui, perché al loro fianco, tanto per gradire, piazza altri tre giocatori estremamente offensivi: Rivelino a sinistra, Jairzinho a destra, Gerson regista arretrato. La sua nazionale passa immediatamente alla storia come il Brasile dei cinque 10. La filosofia è chiara: più del modulo, una sorta di 4-2-4 estremamente flessibile, contano gli uomini. E Saldanha lo diche chiaramente: “Nessuno è proprietario di una zona del campo, non esistono posizioni fisse” e “Quattro uomini sulla stessa linea vanno bene solo per le parate militari” sono due delle sue frasi più famose.
Il Brasile di João Sem Medo (senza paura) in campo terrorizza gli avversari. Vince 6 partite su 6 nelle qualificazioni, con un bilancio di 22 gol segnati e 2 subìti, e in generale fa 10 su 11 in incontri ufficiali, perdendo solo un’amichevole con l’Argentina (peraltro battuta nella rivincita successiva) e permettendosi il lusso di superare 2-1 al Maracanã i campioni del Mondo in carica dell’Inghilterra.
Qualcosa però inizia a scricchiolare. Il suo allenatore in seconda si dimette, dichiarando che con Saldanha è impossibile lavorare. Secondo una voce ricorrente, Pelé avrebbe problemi alla vista e il ct starebbe pensando di non portarlo in Messico. Ma soprattutto c’è il gran rifiuto dell’allenatore a Médici, che vorrebbe in nazionale il suo pupillo Dadá Maravilha, cannoniere dell’Atlético Mineiro: “Il presidente scelga i ministri e lasci stare le cose serie”, la replica di Saldanha.
E così, nonostante i risultati e i brasiliani siano dalla sua parte, il 17 marzo 1970 il comunista João Saldanha viene esonerato, circa 400 giorni dopo la sua nomina. Troppo diverso dalla giunta che guida il Paese e che lui non perde occasione per criticare. “Perché mi hanno cacciato è molto facile capirlo. Più difficile è spiegare come mai mi abbiano assunto”: una frase che racconta tutto.
Tre mesi più tardi, con Mário Zagallo ct, il Brasile dei cinque 10 vincerà la sua terza Coppa Rimet, quella definitiva, senza che il nuovo allenatore abbia cambiato una virgola nella formazione titolare. In panchina accanto a Zagallo siederà anche Dadá Maravilha, campione del Mondo senza giocare una partita. João Saldanha, tornato nel frattempo al giornalismo, racconterà alla radio il trionfo dei suoi ragazzi. Senza alcuna amarezza, perché i grandi uomini sono superiori a tutto, anche all’effimero sapore della vittoria.