Stavamo lì seduti, il sole ci picchiava sulle spalle e ci sentivamo liberi.
(Le ali della libertà)
Quando gli esploratori olandesi arrivarono nella baia che in seguito avrebbe ospitato Città del Capo, videro un’isoletta proprio di fronte a loro. Un piccolissimo pezzo di terra di forma circolare dove una colonia di otarie si crogiolava al sole. La chiamarono Robbeneiland, l’Isola delle Foche. E ben presto scoprirono che quell’insieme di rocce a 12 chilometri dalla costa, all’apparenza inutilizzabile, poteva avere la sua utilità.
Il primo prigioniero politico di Robbeneiland fu Autshumato, un interprete Khoikhoi che Jan van Riebeeck confinò nell’isola nel 1658 insieme ad altri due compagni, Jan Cou and Boubo. All’epoca le prime tensioni tra i colonizzatori e i Khoikhoi iniziavano a farsi sentire e Robbeneiland si rivelò perfetta per spezzare sul nascere i tentativi di ribellione dei nativi… e non solo. Dal 1682, infatti, gli olandesi riservarono il remoto “carcere” sudafricano ai leader dei movimenti di rivolta delle loro colonie nelle Indie Orientali: il primo fu, nel 1682, il Principe di Macassar, anche se il più noto prigioniero asiatico fu Sheikh Madura, che aveva guidato una grande ribellione e fu esiliato nel 1740 nell’Isola delle Foche, dove morì nel 1754.
Il destino di Robbeneiland, o Robben Island dopo le guerre boere e la vittoria inglese, era segnato: da placido rifugio delle otarie a carcere dal quale era quasi impossibile fuggire. Dopo anni di violenze, lacrime e dolore, anche l’isola era divenuta prigioniera di sé stessa. Ma quando tutto sembrava immutabile accadde qualcosa che riuscì a riscattarla. Non fu una rivolta, né uno sconvolgimento politico. Fu un campionato di calcio.
Nel 1961 una considerevole parte di Robben Island fu trasformata in un carcere di massima sicurezza per prigionieri politici. Erano trascorsi tre secoli dalla vicenda di Autshumato, eppure niente era cambiato sulla piatta superficie dell’isola. I colonizzatori ancora rinchiudevano chi osava opporsi alle loro leggi, perfino a quelle più dure e inumane. Perfino all’apartheid.
A Robben Island erano stati confinati tutti i leader dei movimenti di emancipazione dei neri, Walter Sisulu, Govan Mbeki, Robert Sobukwe… e lui, certo. Nelson Mandela. I prigionieri erano divisi politicamente: il Pan Africanist Congress si era separato nel 1959 dall’African National Congress e i membri dei due partiti stentavano a trovare una linea di azione comune all’interno del carcere. C’era una cosa, però, che riusciva a unirli. Nonostante lavorassero 8 ore al giorno nella cava dell’isola, spaccandosi la schiena e rovinandosi la vista a causa dei riflessi del sole sulle pietre bianchissime, al rientro in prigione molti di loro cercavano di combattere la noia e la solitudine tirando calci a un pallone di stracci nei corridoi tra le celle. Il primo a iniziare fu Anthony Suze, che giocava a football anche fuori e negli anni successivi divenne il centravanti più prolifico dell’isola. Il calcio era il loro unico svago, uno dei pochissimi modi che avevano per sentirsi ancora uomini, uomini liberi. Per i loro aguzzini, triste reiterazione di un copione ben noto, erano terroristi senza nome e senza volto, da identificare solo tramite il numero di matricola.
I prigionieri decisero di avere diritto almeno a poter praticare il calcio. Iniziarono nel dicembre del 1964: ogni sabato uno di loro si presentava alla direzione del carcere chiedendo il permesso di poter giocare. Ogni sabato, il permesso veniva rifiutato e il prigioniero privato del rancio per due giorni. Le richieste continuarono per tre anni, unendo i membri del PAC e dell’ANC come mai prima era successo. E infine, grazie all’aiuto della Croce Rossa e della parlamentare anti-apartheid Helen Suzman, riuscirono a strappare l’autorizzazione.
La prima partita sull’Isola delle Foche si disputò tra Rangers e Bucks un sabato di dicembre del 1967. Probabilmente il direttivo del carcere si aspettava che gli uomini, massacrati dal lavoro nella cava, rinunciassero dopo qualche settimana, invece quel minuscolo spiraglio di libertà fu sufficiente per innescare un processo senza precedenti nella storia.
La biblioteca del carcere non era particolarmente fornita, ma per fortuna dei detenuti conteneva due testi fondamentali: le regole ufficiali del gioco del calcio della FIFA e Soccer Refereeing di Denis Howell, parlamentare laburista britannico e grande fautore dell’uguaglianza dei diritti e dello sport aperto a tutti. In breve, divennero i libri più letti di Robben Island dopo Das Kapital di Karl Marx. Grazie al lavoro incessante sui testi che illustravano le regole del gioco, i detenuti fondarono una vera e propria federazione, la Makana Football Association, così chiamata in onore del famoso guerriero di etnia Xhosa Makana Nxele, morto nel 1819 durante un tentativo di evasione da Robben Island dopo il fallimento di una ribellione contro gli inglesi. La Makana FA si dotò in breve tempo di tutto l’armamentario burocratico richiesto per l’organizzazione di un campionato “vero”: regolamento, fogli per le distinte, documenti societari, direttive per gli arbitri, organigrammi.
Per quattro anni, dal 1969 al 1973, in un campo spelacchiato e pieno di buche (la cui cura era affidata ai prigionieri stessi) si disputarono gli incontri delle tre divisioni in cui era divisa la lega: dalla A, riservata ai giocatori esperti, alla C, aperta a chi non aveva mai praticato il calcio.
In questo modo molti dei prigionieri politici di Robben Island poterono partecipare, visto che ognuno dei nove club registrati aveva una squadra per divisione. Quasi 300 detenuti scesero in campo ogni stagione. Alcune delle nove “società” avevano nomi tradizionali africani, altre invece scelsero di omaggiare delle celebri formazioni britanniche: Manong, Gunners, Hotspurs, Black Eagles, Ditshitshidi, Rangers, Dynamo, Bucks, Mphatlalatsane. Le squadre erano rigorosamente divise per etnia e appartenenza politiche; tutte tranne il Manong, che infatti raccolse un tifo trasversale e, grazie alla politica aperta di tesseramento dei giocatori, riuscì a costruire uno squadrone in grado di dominare la divisione A del campionato. Dai documenti ufficiali risulta che il Manong vinse le prime due edizioni ed era in testa a metà torneo nelle altre due, anche se di quest’ultime le classifiche finali non sono sopravvissute alle difficoltà di conservazione nella realtà del carcere.
Dopo il 1973 molti detenuti furono trasferiti o rilasciati e il campionato fu sospeso, visto che diversi dirigenti della MFA avevano lasciato l’isola. La Makana Football Association rimase comunque attiva nell’organizzazione dell’attività calcistica su Robben Island fino al 1991, anno in cui il braccio politico della prigione fu chiuso in seguito all’abolizione dell’apartheid. Nel 2007 la FIFA la nominò membro onorario, unica federazione non rappresentante uno Stato ammessa nel massimo organismo calcistico internazionale.
Seppur durata solo quattro anni, l’esperienza del campionato di Robben Island rappresentò un momento fondamentale nella storia del Sudafrica moderno. Scrivendo referti arbitrali, bollettini ufficiali, ricorsi, regolamenti e classifiche, i dirigenti della MFA imparavano a gestire l’organizzazione di una struttura complessa e affrontavano le problematiche di convivenza sociale e di appianamento delle divergenze che si sarebbero trovati di fronte molti anni più tardi. Tutto ciò mentre uomini di etnie diverse si confrontavano lealmente sul campo da gioco, trovandovi il rispetto e la comprensione dell’altro tra un dribbling, un contrasto e un gol.
“Il calcio salvò molti di noi” ha dichiarato Lizo Sitoto, prigioniero a Robben Island dal 1963 al 1978. “Quando eravamo fuori, a giocare, ci sentivamo liberi, come se fossimo a casa”.
Ma il calcio non si è limitato a questo pur meritevole aspetto. Il calcio, tramite l’operato della Makana Football Association, ha gettato le basi per la costruzione di quel Sudafrica democratico e senza barriere per il quale si erano battuti gli uomini rinchiusi nel carcere dell’isola.
Per rendersene conto basta scorrere le biografie di alcuni dei più celebri prigionieri di Robben Island.
Dickgang Moseneke, che fu uno degli uomini principali della MFA, passò dal regolamento del campionato alle leggi del Sudafrica libero. Oggi è vicepresidente della Corte costituzionale.
In qualità di responsabile dello sport per i prigionieri, Sedick Isaacs portò nell’isola il rugby, l’atletica e il tennis e arrivò perfino a organizzare le Olimpiadi estive di Robben Island. Dopo la liberazione conseguì un dottorato e lavorò come ricercatore nella Medical School dell’Università di Cape Town.
Mosiuoa Lekota in prigione era conosciuto come “Terror” per il suo stile di gioco aggressivo. Il nomignolo gli rimase anche quando divenne Ministro della Difesa, nel giugno del 1999.
Nel comitato organizzatore dei Mondiali sudafricani del 2010 sedeva tra gli altri Tokyo Sexwale, un altro dei giocatori della lega di Robben Island, che fu anche Ministro delle Infrastrutture. Per la FIFA ha ricoperto il ruolo di Alto Commissario per la lotta al razzismo.
Steve Tshwete era nel comitato organizzativo della federazione. L’esperienza sicuramente gli fu utile quando fu chiamato a dirigere il Ministero dello Sport da Mandela.
Jacob Zuma, uno dei migliori difensori del campionato, fu il capitano dei Rangers. Il carisma e la forza d’animo non gli mancavano di certo, non a caso dal 2009 è il Presidente del Sudafrica.
Dalla sua cella nel braccio B, quello di massima sicurezza, Nelson Mandela osservava le partite attraverso le sbarre di una piccola finestra. Non poteva assistervi di persona, né tantomeno scendere in campo. Quando l’amministrazione carceraria decise di costruire un muro di fronte alla cella, a Mandela rimasero solo i resoconti compilati dopo ogni match per rimanere informato sull’andamento dei tornei.
Il 18 luglio 2007 Pelé, Eto’o, Weah e Gullit calciarono 89 palloni in fondo alle reti da pesca con cui erano state costruite le porte del campo di Robben Island. 89, come gli anni che compiva quel giorno Madiba, al quale 18 anni di Robben Island e 27 totali di carcere non avevano impedito di diventare, nel 1994, il primo Presidente del Sudafrica post-apartheid.
Per chi volesse approfondire, consigliamo la lettura di Molto più di un gioco di Chuck Korr e Marvin Close.