Quando i militari giunsero alla sua porta, la notte del 24 maggio del 1943, forse Milutin Ivković capì che la fine era dietro l’angolo. Era accaduto già diverse volte, infatti, che quegli uomini che erano a tutti gli effetti traditori del popolo jugoslavo lo fermassero, lo interrogassero o lo trattenessero, a volte per poche ore, altre per giorni.
Possiamo soltanto immaginare cosa pensò, il grande Milutin Ivković detto Milutinac, quando il giorno successivo fu sommariamente condannato a morte da quegli stessi jugoslavi che un tempo avrebbe chiamato fratelli, che forse ne avevano persino applaudito le gesta, e che ora si accingevano a fucilarlo, piegati – per codardia o per ambizione – alla follia nazista. Forse il grande campione pensò alle due figlie piccole, Gordana e Mirijana; Ella, l’amore della vita di Milutinac e madre delle piccole, era scomparsa prematuramente qualche anno prima. Chi avrebbe pensato a loro?
La leggenda racconta che il grande campione, il miglior difensore dei primi splendidi anni del calcio jugoslavo, non chinò la testa fino all’ultimo. Che anzi riuscì, per un solo istante, a divincolarsi dalla stretta di chi lo stava trascinando alla morte e che quell’istante lo sfruttò nel migliore dei modi, sputando in faccia al comandante in capo del campo di concentramento, Svetozar Vujković. Quindi morì, simbolo non soltanto della Jugoslavia calcistica ma anche di quella libera, la patria che i genitori gli avevano insegnato ad amare.
Milutin Ivković morì perché era comunista.
Discendente del Vojvoda Radomir Putnik, eroe nazionale serbo, da questo aveva preso alcuni tratti caratteriali che lo avrebbero accompagnato per tutta la durata della breve vita: fiero nazionalista, orgoglioso, poco incline ai compromessi, si era avvicinato al football in giovanissima età, restandone folgorato ma senza mai abbandonare gli studi in medicina.
Milutinac non era un fenomeno. Almeno non quanto i grandi campioni che infiammavano gli stadi del Regno di Yugoslavia nei primi anni del XX secolo. Era un difensore di sostanza, di carattere, più bravo nel recuperare il pallone che nel gestirlo, così com’era del resto d’uso ai tempi. Eppure il suo stile era elegante, il suo muoversi per il campo sicuro, e sicurezza sapeva infondere ai propri compagni grazie a un carisma innato, tipico dei grandi leader.
Queste qualità lo portarono nel giro di pochissimi anni, ancora giovanissimo, ad essere una delle stelle del SK Jugoslavija – con cui vinse due titoli nazionali nel 1924 e nel 1925 – e conseguentemente della Nazionale, in cui esordì giovanissimo per diventarne immediatamente il cardine difensivo, l’uomo d’ordine in una squadra ricca di talento ma povera di costanza.
Fu per il suo stile sobrio e mai sopra le righe, per la sua serietà e per l’attaccamento alla bandiera, che quando la selezione calcistica del Regno partì alla volta di Montevideo (una delle quattro europee partite per il Sud America) per i Campionati del mondo del 1930, Milutin Ivković fu scelto come capitano.
24 anni compiuti da poco, giunse in Uruguay come giocatore del BASK Belgrado, avendo lasciato lo Jugoslavija (la “base” per l’attuale Stella Rossa) dopo un aspro conflitto con la dirigenza del club. Milutinac era il perno difensivo di una squadra che aveva i suoi punti di forza nel portiere – e compagno di club – Jakšić, “El Gran Milovan”, e in una linea offensiva tra le più forti della storia del pallone: nomi leggendari come “Moša” Marjanović, “Tirke” Tirnanić, “Bane” Sekulić e “Ivica” Bek, campioni talmente abili da non temere confronto alcuno.
E forse la storia del calcio sarebbe cambiata quando, il 27 luglio del 1930, questa grande squadra affrontò proprio l’Uruguay nel maestoso impianto del Centenario di Montevideo. In palio l’accesso alla finale del primo Mondiale di calcio, una gara che però Ivković e compagni capirono che non avrebbero mai giocato. Perché l’Uruguay era forte, fortissimo, e in più giocava in casa. La Celeste doveva vincere e vinse, aiutato da un arbitraggio vergognoso che ne permise il gioco duro, annullò una rete valida agli jugoslavi e ne convalidò invece una pazzesca a favore dei padroni di casa, un tiro che Peregrino Anselmo scagliò in porta dopo aver ricevuto il pallone, uscito fuori dal campo, addirittura da un poliziotto. Quando Milutinac chiese spiegazioni al direttore di gara, questi fece in qualche modo capire che un risultato diverso avrebbe messo a repentaglio le vite dei presenti in campo: fu questa, forse, l’unica occasione in cui il grande Ivković abbassò la testa.
Delusi da quello che doveva essere uno splendido evento nella storia del calcio e che invece fin da subito si era rivelato uno sporco gioco politico, gli jugoslavi fecero immediato ritorno a casa, rifiutandosi di disputare la finale per il terzo posto. Ma l’aria che trovarono al ritorno a casa non era per niente migliore.
L’avvento del nazismo cambiò l’Europa. Appesi gli scarpini al chiodo e terminati gli studi in medicina, Ivković fece pratica negli ospedali militari e allo stesso tempo, nonostante il matrimonio con la figlia di un noto avvocato cittadino e la nascita delle due figlie avrebbero suggerito a chiunque di tenere un basso profilo, non poté esimersi dal fare lotta politica. Fu tra i promotori del boicottaggio fallito alle Olimpiadi di Berlino del 1936, e quando anni dopo la Germania nazista prese possesso della Jugoslavia, la terra per cui tanti patrioti si erano battuti, fu per lui impossibile smettere di lottare. Lo fece attraverso un giornale, Mladost, presto censurato; lo fece sostenendo apertamente il comitato di liberazione nazionale, cercando di aiutarlo e giocando un gioco rischiosissimo, un gioco da cui non sarebbe potuto uscire indenne.
L’ultima volta che il grande Milutinac, Milutin Ivković, calciò un pallone fu per rendere omaggio al BSK Belgrado, che il 6 maggio del 1943 festeggiava quarant’anni di vita. Si dice che in questa occasione qualcuno rivelò ai governatori del Paese, fantocci al servizio di Hitler, che l’elegante campione dal bell’aspetto e dalla grande cultura era in realtà un informatore dei sovversivi, che andava eliminato. Fu così che scattò l’arresto, fu per questo motivo che l’ex capitano della nazionale jugoslava venne immediatamente fucilato, prova vivente che c’era qualcosa di profondamente sbagliato in un Paese che tradiva così i suoi eroi.
Quel giorno di maggio del 1943, mentre le pallottole del plotone di esecuzione penetravano nel suo petto, il grande Milutin Ivković perse la vita, ma non il suo orgoglio. Nello stesso istante la Jugoslavia perdeva un grande campione e un uomo ancora più grande, quasi leggendario. Un uomo di cui sarebbe però rimasto, una volta sconfitto il nazismo, il mito.
Il mito di Milutinac, Milutin Ivković, l’eroe che difese la sua terra fino all’ultimo, esattamente come sempre aveva fatto in campo.
Articolo a cura di Simone Cola