Il primo antidoto alla retorica è l’onestà intellettuale. Allora si ammetta: il calcio ci manca. L’abbiamo detto, ma a dire il vero non ci crediamo.
Da una ventina di giorni il pallone in Italia è fermo. L’ultima immagine a memoria è quella del bomber Caputo che, in un insulso lunedì pomeriggio, nella cornice di uno stadio poco più deserto che in ogni gara del Sassuolo, segna e mostra in camera un biglietto con scritto: Andrà tutto bene. Restate a casa!
È trascorso un po’ meno di un mese e non è andato bene un cazzo. Il povero Caputo, ovviamente, c’entra zero. Ma i morti, gli infetti e i drammatici effetti sociali ed economici della sindrome da Covid-19 sono qui. Inutile incasellare numeri, registrare trend, programmare scadenze: la paura e il dubbio di ciò che sarà domani si sono fatti carne viva nei nostri organismi di individui singoli e di comunità aggregate a fatica. Ecco perché quella scena oggi è sfocata, assurda, come una vecchia fiction. Più paradossale dell’irreale.
Peggio, in tutti i sensi, quanto si era verificato il giorno prima: Juventus-Inter. Alimentata dal solito nauseante “pre” di accuse e complotti – roba che almeno ai tempi dei bar sport sarebbero volati schiaffi e birre -; metabolizzata attraverso la triste partita “ad ogni costo” senza pubblico, magistralmente recitata da calciatori e staff, mentre attorno anche i più disillusi avevano iniziato a capire come stesse calando il sipario sulla stagione e su un certo modo di vivere la quotidianità; a margine l’atteso “post”, scandito dalla conta dei calciatori positivi al Coronavirus 2, prima nella Juve e poi in diversi altri club di Serie A. Quindi lo stop, finalmente.
A gran velocità l’epidemia è diventata pandemia: il calcio è fermo praticamente ovunque. Ma siamo sempre noi quelli messi peggio. Registriamo allora un altro dato: se sui media nostrani si sviluppa un immaginabile ma esagerato tiro al piccione contro la corsa ai treni dei fuorisede, soprattutto giovani, che abbandonano in tutta fretta le regioni più colpite per tornare verso il Centro-sud ed effettuare l’isolamento forzato con i familiari, nelle prime ore di sospensione delle attività agonistiche assistiamo invece a stravaganti giustificazioni per le fughe e i tentativi di espatrio di tanti stranieri di Serie A disposti a pagare qualunque cifra per lasciare l’Italia e raggiungere il proprio paese d’origine.
La messa in pericolo dal punto di vista virale è ovviamente la stessa, ma il calcio non perde occasione per ricordarci che le differenze esistono. L’evidenza si ripete con la questione tamponi. Non lo diciamo noi, ma il primario di Medicina dell’ospedale di Magenta: «Una dottoressa al lavoro fra pazienti affetti da Covid-19 si è ammalata, ma dopo molte chiamate ai numeri nazionali le è stato negato il tampone. Eppure le pagine delle cronache riportano le buone condizioni di calciatori, attori e politici, a cui il tampone è stato fatto».
Abbiamo smaltito a fatica giorni appesantiti dal fardello sempre più insostenibile (in primis al Nord) di contagi e vittime, nonché invasi dai tanti stucchevoli appelli vip a restare in casa – come se, concedeteci finalmente del sandrocurzismo, la “quarantena” di chi guadagna milioni di euro e quella di un comune cittadino fossero la stessa cosa -.
E senza aver dovuto attendere neanche troppo, si è palesata di nuovo la parte peggiore del circo: il conflitto istituzionale mezzo stampa. “Bisogna riprendere prima possibile … Il campionato va concluso … Tutti ad allenarsi! … Lo scudetto non va assegnato.” Le abbiamo sentite tutte, la sospensione a qualcuno non è andata giù. Il presidente del Consiglio Conte, col solito inutile paternalismo, dichiara che «i tifosi devono prenderne atto», ignorando, lui ed altri, che al 70% dei tifosi – azzardiamo e speriamo di sbagliare in difetto – della stagione chiusa e del pallone che verrà non importa un emerito cazzo, ora.
Sfortunati, abbiamo ritrovato per strada persino le voci di mercato, ossia il modo con cui i giornalisti dimostrano evidentemente di avere fede nella totale idiozia di chi legge, immaginando che possa ritenere verosimili trattative per acquisti di gente che non sa nemmeno quando potrà di nuovo mettere un piede fuori casa liberamente.
Intanto la Uefa, che ha impiegato più ore di qualsiasi lega sportiva del globo a capire di dover fermare tutto, anche Euro 2020, sta ipotizzando una richiesta di risarcimenti alle federazioni nazionali. I governi di ogni forma, politici e non, sono bravissimi a rimpallarsi responsabilità, e il calcio non è da meno.
In Italia, la Figc è pronta a concordare, o pretendere, un piano “Salva-calcio” con norme e agevolazioni per affrontare la crisi di liquidità che arriverà a breve (es.: cassa integrazione per calciatori di Serie B e C con stipendio inferiori a 50mila €). Soldi pubblici, senza fare laboriosi giri di parole. L’alternativa, in molti casi, potrebbe essere il fallimento, e lungi da noi augurarci questo. Soprattutto per chi non guadagna stipendi milionari e ancor di più per tutte le “maestranze” tecniche, i componenti meno in vista degli staff e dei club, e tutto l’indotto minore di donne e uomini che grazie al calcio si guadagnano da vivere.
Non siamo dalla parte del ministro dello Sport Spadafora – né qui né in qualsiasi universo parallelo – e non ci ispiriamo alla sua idea secondo cui «le squadre di A devono capire che niente dopo questa crisi potrà più essere come prima».
Nessuno però può negare che, ragionando in termini di priorità, venga difficile avvertire come urgente il sostegno a un mondo del pallone sempre più eccessivo, autoriferito e quasi totalmente regolato da algoritmi orientati a spillare soldi e tempo al singolo tifoso. E la differenza, sia chiaro, non sta in una presa di posizione etica – calcio “cattivo” vs resto “buono” -, ma in una ricollocazione sociale dell’oggetto–gioco all’interno della realtà.
Lo pensiamo ancor di più dopo aver letto, domenica mattina, queste righe di un fondo della Gazzetta dello Sport a proposito del taglio degli stipendi da marzo a giugno concordato dai calciatori della Juve con la propria dirigenza:
Cristiano Ronaldo che accetta di rinunciare allo stipendio, oltre a compiere un gesto di pura juventinità, dà corpo a un’immagine: è Re Mida che scende in mezzo al popolo, è l’eroe che si fa carico dei problemi della gente, è il Superuomo che abbandona i suoi privilegi e diventa parte della normalità.
Il resto l’ha spiegato bene, anzi benissimo, l’esempio di Bergamo – provincia tra le più colpite dall’emergenza sanitaria – e dell’Atalanta. I suoi tifosi additati quasi a “untori” per la gara di Champions giocata con il Valencia a San Siro lo scorso 19 febbraio, definita da qualche media sprovveduto la “partita zero” del contagio in Lombardia. L’aridità umana e logica del tecnico nerazzurro Gasperini sulle porte chiuse(«dovevamo andare avanti con quel metodo»). Infine la lettera scritta al presidente Percassi dal “Bocia”, storico ultrà:
Non pensiamo che tornare all’Atalanta equivalga al ritorno alla normalità: vorrebbe dire non rispettare chi non siamo riusciti a piangere e che per Bergamo ha dato la vita. Andare e ritornare all’Atalanta c’è sempre tempo e un giorno, neanche tanto lontano, vinceremo lo scudetto; ma ora esultare per un gol di Gomez non ha più senso.
Fotografie più emblematiche dell’odierna distanza tra il mondo del calcio, le voci che ce lo raccontano e una buona fetta del suo popolo di appassionati non potevamo trovarle.
Ecco: forse il calcio ci manca, questo calcio no.