Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Cuore di lupo.

Quando nelle lunghe notti gelate levava il muso alle stelle gettando lunghi ululati nello stile dei lupi, erano i suoi antenati morti e ridotti in polvere che levavano il muso alle stelle e ululavano nei secoli attraverso di lui.
Jack London, Il richiamo della foresta

Nella civiltà occidentale non c’è nessun altro animale considerato solitario come il lupo. L’immagine di questa bestia meravigliosa, pelo folto e occhi incredibilmente espressivi, che vaga come ombra nella notte, assaltando prede inconsapevoli e gridando la sua sete di vita alla luna, è tanto iconica da essere divenuta lo standard attraverso cui l’uomo si rapporta al lupo.
Eppure non è necessario essere etologi esperti per sapere che il Lupo Solitario (titolo, tra l’altro, di una epica saga fantasy di Joe Dever) non è altro che una romantica panzana. Il lupo è un animale sociale, che organizza la propria esistenza all’interno di un organismo gerarchico ma mutevole: il branco. Solo in alcuni casi, e sotto la spinta di motivazioni non ordinarie, può accadere che un lupo si stacchi e inizi a vagare in solitudine. Si tratta per lo più di individui anziani o esiliati dal resto del branco, il cui destino di solito è la morte. Perché la forza del lupo è il branco: senza di esso, le probabilità di sopravvivenza del solitario sono pochissime.
Talvolta, però, un lupo giovane e in forze può decidere di lasciare il proprio branco e di rimanere da solo. È una decisione estrema e pericolosa, che solo un individuo di carattere può prendere. Vale per i lupi e vale anche per qualche essere umano. E se il proprio destino si trova nei nomi, la decisione di Jorge Carrascosa era già stata scritta.

Carrascosa nasce a Valentín Alsina, vicino a Buenos Aires, il 15 agosto del 1948. Debutta nella Prima divisione argentina nel 1967 con la maglia del Banfield, quindi passa al Rosario Central tre anni più tardi. Nel 1971 vince il campionato con le Canallas e nel 1973 si trasferisce all’Huracán, club con il quale vince un altro campionato quello stesso anno. È un terzino sinistro poco dotato tecnicamente, ma in possesso di un carisma, di una garra e di una determinazione davvero enormi. Il suo soprannome è El Lobo, il lupo: glielo hanno dato i compagni del Central, anche se lui non sa bene perché. Forse è a causa del volto, con quei baffi selvaggi e l’espressione intelligente e malinconica degli occhi; o forse nasce tutto dall’atteggiamento con cui sta in campo, figlio dell’attitudine al sacrificio e dello spirito di squadra che lo rendono un leader naturale. In nazionale dal 1970, diventa capitano dopo il Mondiale del 1974. Tutto indica che sarà lui a guidare l’Argentina del mentore e amico Menotti al campionato del mondo del 1978, quello di casa. Ma nel 1977, un anno prima del torneo, rinuncia alla casacca albiceleste. El Lobo, il capobranco, se ne va in silenzio. Alla ricerca di una nuova avventura o, forse, di se stesso.

Jorge Carrascosa

Ma un lupo solitario non è stato necessariamente esiliato, capita anche che decida di allontanarsi di propria volontà. Un motivo può essere quello di cercare altrove una femmina con cui accoppiarsi e mettere su un nuovo gruppo, ma ancora non si sono capite benissimo le dinamiche che portano a questa decisione. (Comportamenti sociologici dei lupi)

Il 25 giugno del 1978 l’Argentina si laurea campione del Mondo per la prima volta nella propria storia. A poche centinaia di metri dallo Stadio Monumental, dentro la Escuela de Mecánica de la Armada, i torturatori del regime riprendono il proprio lercio lavoro dopo aver assistito al trionfo e alla premiazione. Il generale Videla ha consegnato la coppa a Daniel Passarella, il nuovo capitano. Nessuno dei militari, tantomeno Videla, conosce le parole con cui el Flaco Menotti ha spinto i suoi ragazzi alla vittoria: Guardate la gente e rivolgete il vostro saluto ai metalmeccanici, ai panettieri, ai macellai, ai tassisti. Non vinciamo per quei figli di puttana. Vinciamo per il nostro popolo.
A ricevere la coppa del mondo dalle mani di Videla, se tutto fosse andato come doveva andare, sarebbe dovuto essere Jorge Carrascosa. Ma el Lobo ha detto no. Se ne sta lontano, ora. Lontano dal caos del Monumental, dalle grida di gioia dei tifosi, dalle urla dei torturati. Cerca la sua strada. E nel 1979, a 31 anni appena, Carrascosa dice basta con il calcio. Il vecchio branco è sparito per sempre.

Perché lo ha fatto? Perché ha lasciato la nazionale, ha detto no ai Mondiali, ha smesso così presto? Carrascosa non lo chiarisce, non lo chiarirà mai. È un solitario, uno dei pochi che riescono a farcela. L’immagine romantica del lupo che ulula alla luna, senza compagni e senza storia, per una volta si è concretizzata in un rude terzino dalla faccia triste. In molti dicono che non abbia voluto partecipare alla farsa del Mundial ’78: la sua fede comunista è nota, la sua opposizione alla dittatura anche. Ma c’è altro. El Lobo non ne poteva più di quel mondo, di un calcio che non gli sapeva più regalare la gioia del semplice gioco. Nel ’74, al mondiale tedesco, era rimasto disgustato dal “premio a vincere” promesso dalla federazione argentina alla Polonia per fermare l’Italia, cosa poi avvenuta; e l’aumento del doping, del denaro e della corruzione lo aveva portato ad allontanarsi sempre di più dal suo vecchio branco. Fino all’abbandono dell’albiceleste prima e del futbol poi.
Jorge Carrascosa passerà alla storia come l’uomo che disse no a Videla. Come il lupo solitario di tanti film e racconti, incapace di adeguarsi a un mondo che non gli appartiene. Dietro la sua scelta c’era di più, ma non gli è mai importato spiegare. El Lobo ulula un canto che solo lui comprende, e tanto gli basta.

“Questa mia decisione viene da anni di riflessioni, non la cambio certo in un giorno” (Carrascosa a Menotti, che lo aveva chiamato alla vigilia dell’ufficializzazione della lista dei convocati).

Jorge Carrascosa

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