Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Chi saluta e chi no.

Il 1937 è un anno di grazia per il fascismo. Mussolini e Hitler prosperano con i rispettivi regimi in Italia e Germania, e l’ex pittore austriaco si sta preparando a umiliare Chamberlain e le potenze occidentali nella Conferenza di Monaco dell’anno successivo (“Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra“, dirà Churchill). Salazar è al quarto anno di potere assoluto in Portogallo, mentre Francisco Franco sta volgendo a suo favore le sorti della Guerra Civile: il 3 giugno è morto il generale Emilio Mola, suo principale rivale per il potere assoluto, mentre il 18 la caduta di Bilbao gli ha praticamente consegnato su un piatto d’argento il Nord della Spagna. La guerra si trascinerà ancora per due anni, ma il cammino verso la vittoria è stato ampiamente tracciato.
Ed è proprio alla fine del 1937 che Spagna e Portogallo decidono di affrontarsi su un campo di calcio per suggellare la profonda amicizia tra i due dittatori iberici. Salazar sta fornendo armi, soldati e soprattutto appoggio logistico ai nazionalisti, e al suo “collega” l’idea di far riprendere l’attività della Roja proprio contro i lusitani sembra davvero azzeccata. Il 28 novembre del 1937 il Balaídos di Vigo ospita il dodicesimo incontro internazionale tra Spagna e Portogallo. I padroni di casa schierano una formazione rimaneggiata e piena di giocatori fuori forma, conseguenza della guerra e della divisione tra zona nazionalista e zona repubblicana, mentre gli ospiti presentano la loro squadra migliore. Gli spagnoli inoltre indossano per la prima volta una divisa celeste con pantaloncini neri: il rosso è colore sgradito ai nazionalisti e la Selección non può utilizzare le sue solite maglie. Il risultato finale di 1-2 premia i portoghesi, vittoriosi per la prima volta sui loro vicini di casa.
La rivincita è fissata per il 30 gennaio 1938 al Campo das Salésias di Lisbona. La partita finirà con un’altra vittoria portoghese, stavolta per 1-0, ma verrà ricordata solo per ciò che accade prima del fischio d’inizio. Le squadre si schierano a centrocampo per gli inni nazionali, momento in cui devono esibirsi nel saluto fascista: come ha avuto modo di scrivere il quotidiano ABC (edizione di Siviglia) prima del match di novembre, “El mundo del puño cerrado fracasa con estrépitos; lo vencedores siempre saludaron con el brazo extendido, a la romana” [Il mondo del pugno chiuso sta crollando fragorosamente; i vincitori hanno sempre salutato col braccio teso, alla romana]. Non appena le note della Portuguesa iniziano a diffondersi, i lusitani scattano sull’attenti e salutano come fanno i vincitori. Quattro di loro, però, evidentemente non leggono ABC, o per lo meno devono ritenere che i vincitori abbiano altri modi di salutare. Artur da Silva Quaresma è uno cigano di Barreiro, un interno destro di gran classe in forza al Belenenses. Non è sordo, Quaresma, ma si comporta come se non avesse sentito le prime note del suo inno nazionale. Resta immobile, quasi impassibile: spalle un po’ incurvate in avanti, testa alta, braccia distese lungo i fianchi che all’altezza del bacino convergono al centro, nascondendo le mani dietro la schiena. Non saluta, non lui. A Barreiro vivono molti comunisti e oppositori del regime, parecchi dei quali sono suoi amici. Non lo alza quel braccio. Quando la polizia politica lo interrogherà a fine partita, dirà che semplicemente se n’è scordato. Un’amnesia alla quale gli sbirri di Salazar dovranno fingere di credere.
Del Belenenses sono anche Mariano Rodrigues Amaro, centrocampista, e il difensore José Ribeiro Simões Costa. I due alzano il braccio, ma fanno qualcosa che rende letteralmente furiosi i gerarchi presenti allo stadio: invece di tenere le mani ben tese verso il cielo, le chiudono a pugno e non le aprono fino al termine dell’inno. È una sfida aperta al regime e ai suoi rappresentanti allo stadio, il generale e capo di Stato Amílcar Mota, i ministri dell’Educazione, dell’Interno, della Marina e della Giustizia e i membri della Legión Portuguesa che siedono sulle tribune. Per quel gesto, oltre all’interrogatorio della PVDE, saranno incarcerati per alcuni giorni (anche perché non cercheranno di negare il significato di quel pugno, e anzi lo difenderanno) e usciranno solo grazie all’intervento della dirigenza del loro club.
C’è anche un quarto giocatore che rifiuta di salutare: è João Mendonça Azevedo dello Sporting Clube di Lisbona, originario di Barreiro come Quaresma, uno dei migliori portieri portoghesi di sempre. Azevedo alza il braccio e inizia a distendere la mano, ma quando vede i tre compagni ha come un moto istintivo che gli impedisce di completare il saluto. Le sue dita si aprono solo a metà, non formano un pugno ma nemmeno un saluto romano: restano lì, sospese, come se si vergognassero di omaggiare il regime, ultimo modo possibile di esprimere il loro rifiuto della dittatura.

Nei giorni successivi, con Amaro e Simões in carcere, i giornali esaltano il gran successo della partita e della ripresa delle attività sportive distrutte dai “rossi”, ma si guardano bene dallo scrivere mezza parola sui ribelli. Il quotidiano Stadium compie un vero e proprio capolavoro di infamia nel numero del 2 febbraio, pubblicando una foto ritoccata nella quale vengono aggiunte due mani tese a Simões e Amaro; i solerti redattori probabilmente pensano che alle dita contratte di Azevedo nessuno farà caso, mentre Quaresma viene lasciato com’è, perché tolto dal contesto generale quel mancato saluto sembra svuotato di significato. Da cane da guardia a cane da lecco e da riporto del potere, questo è il destino della stampa di regime.
Ricordiamo il nome di quella testata, ma soprattutto ricordiamo i nomi di chi seppe opporsi alla barbarie fascista, seppur con un piccolo gesto su un campo di calcio. Quaresma, Amaro, Simões, Azevedo. Quel lontano 30 gennaio del 1938, alla vigilia di uno dei momenti più bui della storia, mostrarono a Salazar che non tutto il popolo era con lui e consegnarono ai posteri uno splendido momento di coraggio e dignità.
Anni più tardi, Quaresma dirà che il suo non fu un atto premeditato, ma una reazione assolutamente naturale causata della sua antipatia per il fascismo. Non era un attivista, eppure dentro di sé sentì che c’era qualcosa di sbagliato in quella manfrina, e vi si oppose. I suoi compagni fecero lo stesso, trasformando un gesto di opposizione personale in una protesta collettiva.

Qui sotto potete osservare l’immagine pubblicata da Stadium: Azevedo, il primo a destra, non distende la mano; Quaresma ha le braccia lungo il corpo; ad Amaro e Simões (il quarto e il quinto da destra) sono state aggiunte delle dita posticce al pugno chiuso, come si nota meglio nell’ingrandimento successivo.Amaropunhos

C’è chi saluta e chi non saluta. Chi saluta non ha problemi, ma allo stesso tempo è un “condannato a morte nel suo quieto vivere“, come cantavano i Negazione; chi non saluta forse conoscerà il carcere o anche qualcosa di peggio, ma il suo nome verrà sempre pronunciato con rispetto dai suoi compagni di ogni epoca. Quaresma, Amaro, Simões, Azevedo: quelli che non salutarono. E quelli che salutarono, chi se li ricorda più?

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4 Comments

  1. marco Maggio 25, 2015

    Piacevolissimo.

  2. Tommi Maggio 25, 2015

    Grazie per questo post, anche se, da interista, mi tocca rivalutare quaresma

  3. Fascioleghista Maggio 27, 2015

    Stiamo tornando, per questi blog da 4 soldi non ci sarà spazio. Dopo il derby di Roma abbiamo capito che molti tifoserie (dal Wisla al Levski, passando per Real Madrid, Espanyol, Den Haag, Chelsea, Torpedo Mosca eJuventus) si uniranno per lanciare la riscossa contra la feccia rossa….

    • Edoardo Molinelli Maggio 27, 2015 — Post Author

      Carissimo (si fa per dire) fascioleghista, la differenza tra noi e voi sta tutta nel tuo commento. Che avremmo potuto tranquillamente cancellare, ma che invece abbiamo deciso di pubblicare. Il perché è semplice: bastano quelle tue tre righe per rendere idea degli abissi dei quali è capace la miseria umana.
      Pensare che ci sia gente come te, che si prende il disturbo di scrivere per minacciare un blog del tutto marginale come il nostro, da un lato è deprimente, ma dall’altro è anche motivo di orgoglio: significa che le storie che raccontiamo sono ancora scomode, dunque vale la pena di continuare il nostro lavoro.

      Quando scenderai in campo per combattere la feccia rossa coi tuoi amici, non temere: “ai nostri posti ci ritroverai”. Come sempre. Mentre il vostro posto è e sarà per sempre solo uno: la fogna della storia. Au revoir.

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