Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

“Questo club deve rimanere puro”.

Il nostro club non può essere distrutto in questo modo. I musulmani non dovrebbero semplicemente giocare per il Beitar”.

Questo era, e senza dubbio lo è ancora, il pensiero di una buona parte dei tifosi del Beitar Gerusalemme, uno dei club storici della città secolare, “il club della nazione”. Il culmine dell’odio assoluto e indissolubile viene raggiunto tre anni fa, durante il corso della stagione 2012/2013 del massimo campionato di calcio israeliano.

È la storia di Dzhabrail Kadiev e Zaur Sadayev, due calciatori ceceni di religione musulmana. Una storia breve ma contornata dalla follia razzista di alcuni tifosi del Beitar. Dopo un inizio di stagione un po’ altalenante, il Beitar si riprende e a metà campionato si ritrova nella parte sinistra della classifica. L’obiettivo è centrare una delle prime quattro posizioni. L’inferno però sta per sopraggiungere dalle parti del Teddy Stadium, la casa del club giallonero.

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Dzhabrail Kadiev e Zaur Sadayev.

Nella finestra di mercato del gennaio 2013, l’allora patron milionario russo-israeliano Arkady Gaydamak decide di dare concretamente seguito all’amicizia che lo lega ad un altro paperone russo-israeliano, Telman Izmailov, a sua volta legato al presidente della repubblica Cecena e del Terek Grozny, Ramzan Kadyrov. Si vocifera che Izmailov sia interessato a rilevare il Beitar ma, piuttosto che far visita di persona al suo amico e collega a Gerusalemme, decide di invitare Gaydamak e la sua squadra in Cecenia. Il Beitar, club-bandiera del nazionalismo israeliano, fin dalla sua nascita strettamente legato alla destra conservatrice, invitato in terra cecena a maggioranza musulmana? Sì, è proprio così. Ufficialmente per un’amichevole con il Terek Grozny, che per la cronaca finirà 0-0. Ma non è tutto. Per rafforzare il legame fra israeliani e ceceni, “la cui storia ha delle tristi affinità” – si legge in un comunicato del club di Kadyrov – due calciatori del Grozny passano al Beitar. Sarà lo stesso presidente Gaydamak, insieme al sindaco di Gerusalemme Nir Barkat, a presentare dunque Dzhabrail Kadiev e Zaur Sadayev, ignari del fatto che sarebbe stato l’inizio di un incubo.

I tifosi del Beitar mostrano il simbolo del Kach Party, partito ultranazionalista israeliano messo fuori legge per incitamento al razzismo.

I tifosi del Beitar mostrano il simbolo del Kach Party, partito ultranazionalista israeliano messo fuori legge nel 1994 per incitamento al razzismo.

E qui entra in gioco la componente che rende questa storia triste e tremendamente infelice. ‘La Familia’ è il nome della frangia estremista del tifo giallonero. Nei primi anni del ventunesimo secolo la parte più razzista ed ultra-conservatrice dei supporters del Beitar – generalmente riconosciuti nel resto di Israele come appartenenti alla classe operaia e storicamente legati al Likud, il maggior partito di destra – confluisce nel nuovo gruppo denominato appunto ‘La Familia’. Ciò che caratterizza maggiormente questa cellula ultrà è che, a differenza degli altri gruppi di supporter israeliani, è stata ed è tuttora direttamente e ufficialmente supportata – di fatto anche sovvenzionata – dalla dirigenza del Beitar. Il carattere razzista di questi ultrà ha richiamato molti esponenti dell’estrema destra, il cui sentimento di odio nei confronti di arabi e musulmani è fortemente radicato. Nel corso dell’ultimo decennio ‘La Familia’ è cresciuta esponenzialmente, ad oggi continua a fare proseliti, soprattutto fra i giovani. Giovani che abbracciano la bestiale ideologia del razzismo. È scontato andare al Teddy Stadium ed ascoltare cori come “Guerra! Guerra! Guerra!”, “Lo giuro, non ci saranno arabi qui” o ancora “Eccoci, siamo il club più razzista del Paese”. Questi ultrà hanno pian piano influenzato enormemente l’intera struttura del club: se vuoi essere tifoso del Beitar, sai cosa fare e sai quali idee difendere. Nonostante ci siano stati eventi che hanno portato anche a condanne pubbliche e sportive, e ad un progressivo allontanamento dei normali e moderati tifosi, ‘La Familia’ non ha smesso di acquisire un grande potere.

Già nel 2005 ci fu un caso simile a quello dei due calciatori ceceni. Il nigeriano Ibrahim Ndala, proveniente dal Maccabi Tel Aviv, venne preso di mira da ‘La Familia’ perché musulmano. Cori, gesti razzisti come il lancio di banane fra allenamenti e partite spinsero il difensore, dopo soli cinque match, a lasciare il club giallonero. L’arrivo di Dzhabrail Kadiev e Zaur Sadayev è stata la classica goccia che ha fatto traboccare un vaso colmo di odio assoluto. Già prima del loro arrivo, quando si sparse la voce di un possibile trasferimento di calciatori musulmani, ‘La Familia’ non perse tempo a manifestare la marcata disapprovazione che assunse forma di cori riprovevoli. Poco dopo l’ufficializzazione, la sala-museo del club venne seriamente danneggiata a causa delle fiamme provocate dall’attacco di alcuni esponenti ultrà.

Kadiev, giovanissimo difensore classe ’94, e Sadayev, attaccante nato nell’89, hanno fin dall’inizio della loro avventura a Gerusalemme un trattamento ai limiti del sopportabile. In un match nel mese di marzo, Sadayev, partito titolare, segna il goal del provvisorio 1-0 contro il Maccabi Netanya. È il minuto numero 47, raccoglie di petto un lancio di un compagno, si invola verso la porta avversaria e trafigge il portiere. È un bel gol, lo stadio esulta, viene accerchiato dai compagni che lo festeggiano e lo abbracciano. Poco dopo però, alcune centinaia di tifosi, protagonisti di fischi assordanti e cori razzisti, lasciano gli spalti. Di fronte allo sguardo degli altri supporter del Beitar, felici per il goal appena segnato da Sadayev, i membri de ‘La Familia’ protestano vistosamente abbandonando lo stadio e la squadra di cui tanto vanno fieri.

L’avventura dei due ceceni al Beitar finirà pochi mesi dopo. A giugno infatti, fanno entrambi ritorno al Terek Grozny. Sadayev collezionerà in tutto sette presenze e solo quel goal. Kadiev giocherà una volta sola, peraltro partendo dalla panchina.

La Familia’, invece, è ancora saldamente seduta sul trono del razzismo e della violenza.

Articolo a cura di Francesco Barbati.

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