Minuto Settantotto

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Argentina 1978: riflessioni supplementari

Qualche anno fa scrissi per il nostro blog del Mondiale argentino del 1978 (https://www.minutosettantotto.it/argentina-1978-mondiale-videla-militari-dittatura/), cercando di vedere se ci fosse spazio per un’altra interpretazione, che desse respiro anche all’indiscutibile valore tecnico della Nazionale argentina campione del mondo e che non etichettasse, indistintamente, tutti i protagonisti come coloro che si prestarono alla farsa.

D’altronde, sempre in quegli anni, alle stesse latitudini, in un contesto identico, Francisco Valdes, figlio di operai e militante di sinistra, venne incaricato direttamente dal Presidente della Federazione di depositare in rete il gol partita nella peggiore messinscena vista su un campo da calcio: Cile Urss 1-0. Il Cile scese in campo senza un avversario, poiché l’Unione Sovietica boicottò lo spareggio mondiale dopo il golpe fascista di Pinochet, avvenuto nemmeno due mesi prima. Vent’anni dopo la partita fantasma, “El Camacho”, come veniva soprannominato Valdes, alla morte di Neruda scrisse una lettera indirizzata al poeta cileno scrollandosi di dosso l’insopportabile peso di quel gol, che aveva marchiato la sua vita.  

L’intento era proprio quello di sollevare i giocatori argentini, almeno chi non simpatizzava direttamente per la Junta Militar, dalla complicità con il regime, dando risalto ai piccoli gesti di dissenso. Dalle parole di Menotti all’esultanza lontana dai colonnelli di Kempes.

La ferita di chi giocò quel mondiale è ancora oggi aperta. Ho avuto modo di vederlo in prima persona quando nel 2018 partecipai ad una serata sul Mondiale argentino alla presenza di Osvaldo Ardiles e Ricardo Villa, entrambi iridati con quell’Albiceleste. Il tema dell’incontro, come si poteva facilmente immaginare, non era soltanto il calcio giocato. Era inevitabile che si parlasse di Argentina 78 a tutto tondo. Terminato l’intervento inziale di Matteo Marani, in cui spiegava puntualmente il contesto di quel Mondiale, Ardiles e Villa abbandonavano la sala, lasciando di stucco il pubblico e gli altri relatori. Le motivazioni di questo fuoriprogramma? Non erano lì per parlare di politica, ma soltanto di calcio.

Ho riflettuto più volte su quel brusco abbandono, pensando che in qualche modo quelle poche righe che avevo scritto anni addietro avessero restituito, anche se destinatari non ne sapevano nemmeno l’esistenza, un po’ di conforto nel ricordo di quella vittoria.

Poco più di un mese fa, quando ancora non eravamo stati travolti dalla quarantena, ho assistito allo spettacolo teatrale “Tango del calcio di rigore” di Giorgio Gallione con Neri Marcorè ed Ugo Dighero. L’opera inscena, in un continuo dialogo tra realismo magico e verità storica, le atmosfere del Cono Sur negli anni Settanta, e lo fa parlando di calcio e partendo proprio dai Mondiali argentini.

Tango del calcio di rigore

Nemmeno a dirlo, uscendo da teatro ho ripensato nuovamente a quelle righe buttate giù ormai quattro anni fa.

All’abbandono della sala da parte di Ardiles e Villa, in un qualche modo, mi ero sentito rassicurato degli intenti di quel pezzo. Questa volta a fine spettacolo mi sono accorto che qualcosa mi era sfuggito, qualcosa che avrebbe meritato una maggiore empatia. Perlomeno la stessa riservata ai protagonisti in campo. E allora mi sono messo a riflettere su cosa mancasse a quel racconto, a chi avessi fatto un torto.

Iniziamo dal finale. La Coppa del Mondo venne alzata da Daniel Passarella di fronte a Videla, il sanguinario dittatore che inaugurò la cerimonia mondiale con la sfacciataggine tipica di chi sa di non poter essere contraddetto: «nella cornice dell’amicizia fra gli uomini e fra i popoli e sotto il segno della pace dichiaro ufficialmente inaugurato questo undicesimo campionato mondiale di calcio».

Il capitano Jorge “El Lobo” Carrascosa

Il capitano di quella nazionale non doveva essere Passarella, ma Jorge Carrascosa. Alla vigila dei mondiali “El Lobo” decise di non poter continuare a giocare con la Nazionale perché non se la sentiva più di guidare la squadra mentre tutto intorno sapeva di dittatura e di violenza. Da lì a poco sarebbe finita anche la sua carriera da calciatore, concludendo la sua vita lontano dall’agio come un assicuratore qualsiasi, contrariamente a chi lo sostituì. Qualche decennio più tardi, liquidò con sarcasmo il tentativo di Passarella di negare di essere stato a conoscenza di cosa stesse accadendo nel suo Paese.

In quel Mondiale c’era anche un po’ di Italia; e non mi riferisco allo zoccolo duro della nazionale che poi vinse i successivi mondiali. Parlo di due storie diametralmente opposte. Durante la finale, in tribuna vicino a Videla, c’era anche il Gran Maestro della P2 Licio Gelli, che partecipò ai festeggiamenti ufficiali. Chi invece non poté assistere alla finale fu invece il giornalista Gianni Minà, inviato in Argentina per seguire i Mondiali, perché venne espulso dal Paese per alcune domande sui desaparecidos. La stampa internazionale, compreso il giornalismo italiano, durante Argentina 78 fece finta di nulla, vuoi per le difficoltà di svolgere il proprio mestiere in uno stato di polizia, vuoi per le coperture politiche di cui godeva Videla in Occidente.

Le Madri di Plaza de Mayo

E poi ci sarebbero le Madri di Plaza de Mayo, il cui strazio e la cui forza vengono evocati nello spettacolo dalle note di “Gracias a la vida”. E poi ancora la Escuela de Mecánica de la Armada, i vuelos de la muerte, la marmelada peruana – da me frettolosamente ridimensionata – e altre mille cose che non sapremo mai, ma che contribuirono a rendere Argentina 78 il Mondiale della vergogna.

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