Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Storia a puntate di un delirio organizzato – 4

Ci sono muri da abbattere, ed altri forse rimasti in piedi troppo poco.

Dante arrivava a fatica, salutando tutti; entrava sempre a partita iniziata, la gente di curva lo riconosceva subito e lo acclamava. Dante rispondeva al saluto, agitava il cappello, stringeva mani, carezzava teste di “lupacchiotti” e saliva in piedi sul muretto nel suo posto riservato.

Vincenzo pure stava in piedi, anche se su una transenna. A dargli stabilità erano Michele e Luigi dal basso, tenendosi stretti il tessuto dei suoi jeans chiari; qualcun altro invece si teneva in equilibrio con una mano poggiata sul semaforo. Nessuno li acclamava, al massimo si offendevano a vicenda, tra sudore e aria schiacchiata dall’attesa.

La fila ruotava attorno a tutto il palazzone del Banca nazionale del lavoro. Aspettarono un’ora, poi due, quindi tre, alla fine si dovettero accontentare di un “mi spiace, i biglietti per le partite dell’Italia nel girone eliminatorio sono terminati”.

Vincenzo, Michele e Luigi si ripromisero di fare il massimo per i biglietti degli ottavi di finale, ipotizzando e in fondo sperando che l’Italia avrebbe confermato il suo ruolo da favorita arrivando prima nel gruppo e continuando così a giocare all’Olimpico. Altro giorno, altra attesa, altra transenna. Ma altro, però, accadde anche nelle vita dei tre, e la promessa andò a farsi fottere. Mondiali di merda!

Come quelli di Antonino, Serafino, Giovanni, Giuseppe e Gaetano. Anche loro in piedi, sudati, perché faceva caldo a Palermo il 30 agosto 1989 quando, a circa dieci mesi dall’inizio delle maledette notti magiche, durante la terza ristrutturazione dello stadio “La Favorita”, finirono vittime del crollo di alcuni tralicci della tribuna.

14483742_10210318632031129_1486646688_nNessuno ricorda per loro funerali di Stato, ma solo una targa seminascosta lì in cui li colse la morte; d’altronde stavano semplicemente lavorando. In compenso, si ricordano bene esponenti di spicco del comitato organizzatore intristiti dall’evento, scoraggiati, quasi invogliati a non andare avanti. Non tanto per i morti, ché quelli sul lavoro non sono poi una notizia, quanto più per la macchia indelebile che andava a sporcare la reputazione di una macchina organizzativa che procedeva a passo spedito per dare al resto del mondo l’immagine di un’Italia moderna, potente, ricca, allegra e accogliente.

Infatti poi i lavori vennero ultimati senza troppi problemi; l’ampliamento e l’ammodernamento dello stadio non potevano aspettare. C’era in ballo la grandezza del made in Italy. C’era una Coppa del mondo da giocare. E da perdere, indebitati.

Chissà se qualcuno l’ha mai raccontato, questo, ad Antonino, Serafino, Giovanni, Giuseppe, Gaetano e gli altri 19 operai (sette nei cantieri, dodici nei lavori esterni) morti lavorando per Italia ’90.

In quei giorni c’era un Luca, all’anagrafe completa Cordero di Montezemolo, a presiedere il baraccone, tutto compreso: dal colpo di testa di Omam-Biyik alle 24 “morti bianche”; dal rigore inesistente fischiato da Codèsal Mendez poi realizzato da Brehme agli infortuni sui cantieri di Genova, Torino e Bologna; dalla diffusione del simpatico pupazzo “Ciao” ai costi innalzatisi di quasi l’85% rispetto al progetto iniziale (conto finale stimato sugli attuali 3.74 miliardi di euro); dall’inno tormentone di Moroder/Bennato/Nannini agli stadi astronave in deserti urbani finiti abbattuti o nuovamente completamente ristrutturati; dai gol di Totò Schillaci ai progetti inagurati addirittura dopo il Mondiale oppure lasciati presto in preda all’abbandono, come la stazione Farneto a Roma, costata 15 miliardi di vecchie lire e diventata poi occupazione di CasaPound fino allo sgombero avvenuto nell’estate 2015.

Ed in quest’ultimo caso, forse, sarebbe stato meglio abbattere tutto…

Ad un certo punto la folla chiedeva il discorso… Dante zittiva con ampie sbracciate la platea, le mani prima adagiate sui fianchi e poi le alzava al cielo, come un sacerdote ad invocare l’ausilio divino, mentre il silenzio calava sulla curva e partiva la sua voce potente e tenorile.

In piedi al suo posto su quel muretto a sinistra della Curva Sud, lato Tribuna Monte Mario. Uno dei “muretti” storici del tifo romano all’Olimpico, ognuno col proprio striscione. Uno dei muretti abbattuti nella ristrutturazione dello stadio per i Mondiali del 1990.

Quando l’Italia giocò a fare la grande, a qualsiasi costo.

 

Articolo a cura di Nicola Chiappinelli.

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