Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Il problema non è Neymar, è il capitalismo.

Oggi è il 2 settembre. Fuori c’è il sole (alla faccia di chi prevedeva temporali in questa zona) e noi, finalmente, siamo liberi: il calciomercato è finito. Ciò ovviamente non basterà a zittire gli “esperti” in servizio permanente, i Criscitiello, i Di Marzio, i Pedullà e compagnia starnazzante, anche perché c’è sempre la possibilità che lo svincolato Stokatsen firmi per la Pergolettese, ma per lo meno finirà il bombardamento h24 cui siamo sottoposti su ogni mezzo di comunicazione.

È stato indubbiamente un calciomercato in cui si è speso moltissimo. 222 milioni per Neymar, 150 per Dembelé, 180 per Mbappé (ma fra un anno), eccetera eccetera: cifre da partita a Football Manager “editata” con fondi no limits. Immancabile il coro cassandresco che ha accompagnato queste operazioni: il calcio è morto, abbiamo toccato il fondo, questo non è più uno sport e via dicendo. Ma siamo sicuri che sia questo il punto focale della questione? Perché i discorsi sul calcio che muore, come chi sa chi non legge solo la Gazzetta, sono antichi quanto il calcio stesso.
Simone Cola, blogger de l’Uomo nel Pallone, nel suo libro sul calcio vittoriano (Pionieri del football) elenca numerosi esempi di contestazioni e scontri, talvolta fisici, sull’ingresso del professionismo e del denaro nel gioco, evento che per i cultori del nuovo sport ne avrebbe sancito rapidamente la scomparsa. Durante le ricerche per il libro Euzkadi, chi scrive si è invece imbattuto in un divertente (col senno di poi) articolo di giornale messicano, nel quale si commentava il futuro ingresso della selezione basca nel campionato di Prima Divisione locale: “A noi non sembra giusto, a differenza di altri colleghi, che i baschi partecipino alla Liga. […] Il calcio messicano è diventato uno spettacolo commerciale, sfruttato da una società che assomiglia sempre più a un’azienda che non a una società sportiva”. Correva l’anno 1938. E che dire dei 2 miliardi pagati dal Napoli per Beppe Savoldi? Così commentava il Corriere della Sera, non il Gazzettino di Forlimpopoli, l’11 luglio del 1975: “La notizia in sé farebbe clamore per il malcostume che presiede a questo genere di contrattazioni nel mercato del calcio. Nel caso di Napoli però lo scandalo ha un significato più grande”. Perché più grande? Perché in quei giorni a Napoli c’era lo sciopero dei netturbini e la città era invasa dalla spazzatura. L’ispettore generale degli addetti alla nettezza urbana, Ferdinando Musto, dichiarò che “con la metà della cifra spesa per Savoldi avremmo pagato tutti gli stipendi arretrati dei miei dipendenti e fatto diventare le strade di Napoli come uno specchio”. Sono passati 40 anni, ma gli schemi restano immutati.

Eppure, come orologi fermi da decenni, opinionisti di ogni risma continuano a spiegarci, stagione dopo stagione, che il calcio romantico è morto; in realtà non è mai esistito, come hanno scritto intelligentemente gli amici di Calcio Romantico, ma certe affermazioni sono tabù, non devono disturbare la narrazione preconfezionata che tanto piace ai manovratori. E dunque è tutto un fiorire di insulti poco velati agli sceicchi e ai loro club, che strapagano perfino le riserve, e di peana strazianti sul bel pallone di una volta.
Tutto ciò, però, senza coinvolgere minimamente l’Italia. L’Italia, che più di ogni altro paese ha contribuito alla nascita del calcio-business, resta sempre fuori dalle “analisi” un tanto al chilo. I 222 milioni per Neymar, 25enne, iper-mediatico e con i mezzi per diventare il migliore del mondo, sono troppi; i 90 per Higuain, 30enne, con scarso appeal mediatico e con un potenziale che difficilmente lo porterà al Pallone d’Oro, sono invece spesi benissimo. D’altra parte è così da sempre, e la rimozione del ruolo che hanno avuto i nostri “sceicchi” meriterebbe un articolo a parte. La vicenda Lentini, roba che altrove avrebbe portato all’interdizione perenne di Berlusconi, è ormai una storia buona giusto per qualche articolo strappalacrime sul giovane di talento che si è bruciato, mentre l’acquisto di Jean-Pierre Papin (allora Pallone d’Oro), fatto solo per strappare alla concorrenza un vero asso, è ricordato come un colpo da maestro, come se fosse normale acquistare un grande giocatore per fargli fare due anni di tribuna e comparsate. E il Parma di Tanzi, la Lazio di Cragnotti, la Fiorentina di Cecchi Gori, la Roma dei Sensi e delle banche? Tutto cancellato, nel nome della nostalgia e dei bei tempi che furono. Le centinaia di miliardi spesi durante l’epoca d’oro della Serie A rappresentano giusto il ricordo di un tempo lontano e, forse, irripetibile, così come gli acquisti di allora vengono ricordati solo e soltanto per il loro status, fenomeni o bidoni poco importa. Nessuna riflessione seria, nessun tentativo di storicizzare e di fornire così una chiave interpretativa al presente. I media non vogliono farlo e all’indignato da social non interessa. Molto meglio sputare sentenze e aspettare il prossimo colpo milionario per ricominciare il giro di giostra.

Intendiamoci, non ci fa certo piacere leggere certe cifre e constatare come l’aspetto finanziario-affaristico sia sempre più preponderante nello sport che amiamo (senza dimenticare la geopolitica, come dimostra il caso del Qatar con l’acquisto di Neymar), ed è evidente che l’impennata registrata negli ultimi 2-3 anni sia preoccupante. Tuttavia, non abbiamo i paraocchi e comprendiamo come tale evoluzione sia scontata, viste le premesse e considerato quanto accaduto negli ultimi 20 anni nell’economia globale. Riteniamo semmai che si stia perdendo l’ennesima occasione per tentare di cambiare, almeno in parte, il sistema. Parlare delle cifre è comodo, meno lo è concentrarsi sul ruolo dei procuratori-pigliatutto, dei TPO e dei fondi d’investimento nella compravendita dei calciatori, che dovrebbe essere limitato prima che il mercato si trasformi in una compravendita infinita gestita da agenti e trafficoni di ogni tipo. Come? Circa un mese fa è uscito un articolo sul Sole 24 Ore dal titolo “E se i lavoratori avessero il cartellino come i calciatori?”, che evidenzia i potenziali benefici che, secondo l’autore, avrebbe l’introduzione del “cartellino” per ogni lavoratore. A noi, che siamo tutto fuorché turboliberisti, la proposta sembra una sonora cazzata, ma ci ha fatto sorridere la coincidenza: poco prima di leggere l’articolo stavamo pensando a un mondo del calcio nel quale i giocatori, all’americana, sono i proprietari unici del proprio cartellino. In questo scenario mediatori, agenti, procuratori e simili avrebbero un potere limitato, perché non esisterebbero le transazioni tra società.
Siamo nella fantascienza, ma non sarebbe male leggere ogni tanto di proposte del genere, invece delle solite invettive contro i mercenari. Perché negli anni ’20, così come nei mitici ’90, non si giocava mica per soldi. E chi ve lo dice ha un ghiacciolo al posto del cuore.

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