Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Odiare Salva Ballesta.

La prima volta in cui ho visto giocare Salva Ballesta ancora ero un ragazzino e guardavo il calcio come guardavo la politica, in maniera distaccata, come fossero mondi separati, nei quali mai avrei avuto modo di entrare. Mi sono serviti degli anni però per capire che quella volta – me la ricordo bene, Salva giocava nel Bolton e a quei tempi ero così disilluso che uno spagnolo in Premier League mi pareva qualcosa di umanamente impossibile, duo mondi che non si incontrano né collidono mai, due cose a sé stanti la Spagna e l’Inghilterra, che come nazionali forse nemmeno si erano mai incontrate – dicevo, quella volta in cui lo vidi zampettare in bianco in un Villa Park qualsiasi, avrei dovuto odiarlo subito, inconsciamente, acriticamente, amoralmente.

E invece no, perché a quei tempi ancora giocavo a calcio nella squadra di provincia, avevo altre velleità professionali e cercavo di rimanere l’unico stendardo del mio paesino con ideali politici virtuosi, il che, nel tipico paesello da mille abitanti figli di industriali, vuol dire per forza avere Ernesto Guevara disegnato in tutti i modi sul diario e dedicare un gol – l’unico in carriera – alla memoria di Enrico Berlinguer, scomparso vent’anni e undici giorni prima. Ero un disilluso quando notai Salva Ballesta, con quella faccia da hombre vertical, da franchista puro anche se di Francisco Franco avevo sentito parlare poco e male solo dalla professoressa di storia. Salva Ballesta era un giocatore qualsiasi e, diciamoci la verità avrebbe avuto anche un’onesta carriera, se solo non fosse stato per la politica. Sì, calcio e politica spesso si mischiano anche se non dovrebbero, ma quando succede allora ecco che finalmente il pallone si toglie di dosso quella patina da starlette che si porta dietro da quindici anni a questa parte e si inizia a fare a cazzotti, nel senso metaforico del termine. Salva Ballesta osò criticare – o meglio, offendere e minacciare dal momento che “rispetto più una merda di cane che lui” va un pelino oltre la critica – il catalano di sinistra Oleguer del Barcellona e i blaugrana lo querelarono, a onor del vero si può dire che oggi, nel 2015, una situazione del genere è impensabile nonostante siano passati poco più di cinque anni.

Salva Ballesta

Salva Ballesta non ha mai fatto niente per farsi amare, suppongo che alle medie picchiasse o prendesse in giro i ragazzini cicciottelli o comunque meno possenti di lui. Lui, figlio di un pilota militare della FFAA, le forze armate spagnole, non poteva essere uno con cui andare d’accordo. Tutto questo l’ho saputo dopo, e allora sì che ho iniziato a odiare Salva Ballesta. Sia chiaro, non di un odio di quelli viscerali, quello si riserva solo ai nemici – non un odio tale da cantargli Tiro na testa Salva Ballesta o ETA matalo, come di recente hanno fatto i tifosi del Celta, sono sempre stato troppo lontano dal calcio spagnolo per sentire dentro di me questo tipo di sensazioni -, era un odio diverso e anche difficile da spiegare, come se avessi sempre desiderato di trovarmi di fronte Salva Ballesta per odiarlo ancora, e ancora di più. Io la stavo guardando alla televisione quella partita tra l’Osasuna e il Malaga al Reyno de Navarra, Pamplona, Navarra e quindi Paesi Baschi. Lo vidi scaldarsi mentre i tifosi dellOsasuna lo coprivano di insulti, lui spagnolo aragonese e nazionalista fino al midollo, e Salva Ballesta corricchiava con la casacca addosso e digrignava i denti come a giurare vendetta sul campo di gioco. Salva Ballesta entrò, fece due falli inutili, sciocchi, dettati dalla cattiveria che solo chi si dichiara così sfrontatamente patriottico può avere. L’arbitro gli mostrò due volte il cartellino giallo, una volta il rosso e un’altra volta ancora l’entrata degli spogliatoi indicandogliela con il braccio teso, un beffardo segno del destino. Salva Ballesta si girò verso il pubblico e urlò “Que viva España, hijos de puta!“. I tifosi navarri del Reyno de Navarra non si sentirono colpiti nel segno, anzi, furono fortificati da quel gesto che rimarcava la loro superiorità su un individuo del genere. Avevo i brividi.

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Come calciatori non si discute, ma se fossimo bravi a scindere il campo da gioco dalla lucidità durante le interviste e i momenti di tensione allora saremmo degli automi, o meglio, degli appassionati di calcio a cui vanno a genio solo le notizie di calciomercato in estate e che reputano Messi e Cristiano Ronaldo il massimo mai visto con un pallone tra i piedi. E invece no, noi odiamo Salva Ballesta, io odio Salva Ballesta. Il motivo sta nella sua sfacciataggine, nel suo ostentato nazionalismo di destra e, forse, anche in qualcosa di freudiano tutto da scoprire, almeno per me. Da quando ho saputo che l’11 marzo del 2004 – il giorno di Atocha, uno die più tristi da quando esiste l’Unione Europea – Salva Ballesta, a caldo, ha dato adito alle voci che volevano l’ETA dietro alla strage di Madrid, allora ho guardato le sue partite con occhi diversi. Da quando ho sentito che Dios, Familia, Patria, Ejército y Fútbol erano e sono, in ordine di importanza, i capisaldi della vita di Salva Ballesta, lo stesso Salva Ballesta che si dichiara apolitico, allora ho capito che quello non era il mio modo di intendere il calcio e che il calcio è solo la base per capire ciò che uno è nella vita. Da quando ho letto che uno dei suoi idoli non è un calciatore né uno sportivo, bensì Hans-Ulrich Rudel – un nazista! – allora ho cominciato anch’io a digrignare i denti mentre lo osservavo sperando, spesso invano spesso no, che la sua squadra perdesse.

La sua squadra, che poi per un periodo è stata l’Atletico Madrid di Gil, altro tipino tutto pepe che non disdegnava il nero, politico e economico. Sensibile anche lui.

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