Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Murcia-Cartagena e un calcio antifascista.

C’è una frase, quando ti approcci al calcio in una determinata maniera, che ti perseguiterà sempre. E dato che quel determinato tipo di approccio è quello che inseguiamo noi continuamente, la scontiamo spesso sulla nostra pelle.

“Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”, Vangelo secondo José, 4, 14.

Nonostante la frase sia forte e faccia il suo effetto, e nonostante nessuno sappia in realtà cosa Mourinho intendesse dire (l’ho sentita dire da Buffa come da Fazio a Montella intervistato a Che tempo che fa, qualcuno dei due non c’ha capito un cazzo – e ho anche un’idea di chi sia dei due), in questa occasione fa sorridere.

Sì, perché qualunque cosa intendesse Mourinho dubito fortemente che si riferisse al fatto che per parlare di calcio devi anche finire per parlare delle milicias cartageneras e dubito fortemente che Fazio volesse andare a parare qui quando ha citato Mourinho nella noiosissima intervista a Montella nella speranza di alzare un attimo il livello della discussione.

“Montella, cosa ci dice dell’atteggiamento di Niang contro il Crotone?”

“La situazione è semplice: Niang era il rigorista ed è giusto si sia imposto su Lapadula”

“Ah, interessante. E invece le Ley de responsabilidades politicas? Lei capirà bene che chi sa solo di calcio non sa niente”.

Sì, una roba tipo questa.

In ogni caso, noi intendiamo proprio questo. Senza le milicias cartageneras non sarebbe esistita la storia di calcio che stiamo per raccontarvi, perché in questo determinato contesto il calcio ha smesso di essere un qualcosa che esiste di per sé e può, semmai, essere contaminato da altro ed è esistito esclusivamente in funzione di un valore più alto. Quello dell’antifascismo.
Quella di Cartagena, e in generale della Murcia, durante la Guerra Civile è stata una storia particolare, ed è proprio in questa terra che la nostra storia ha piantato le radici.

Delle radici solide in grado difficilmente di essere scalfite, proprio come si addice alla mentalità di queste parti.

Cartagena, prima del 1939, non è mai stata messa in discussione. Mai.

Città che Franco e gli alleati, soprattutto gli italiani, hanno sempre messo ai primi posti nella lista dei desideri per via dell’importante porto, ha sempre resistito a pugno chiuso rimanendo fedele all’ideale repubblicano grazie anche all’ala protettrice di Valencia, nonostante i più di 250 chilometri di lontananza. La situazione via terra era relativamente calma grazie all’encomiabile lavoro della già nominata milicias cartageneras, che niente però poterono in frangenti come il terribile novembre del 1936, dove prima ancora che Guernica città come Cartagena fecero i conti con le bombe dei fasci-nazisti in soccorso di Franco (addirittura quelli che bombardarono Cartagena erano aerei “clandestini” con piloti senza divisa, al contrario dell’organizzatissima Legione Condor e dell’Aviazione Legionaria di Guernica).
In un contesto del genere, in un contesto dove il gioco perde di ogni senso, si decise di giocare. Giocare a calcio, per la precisione. Le squadre del Murcia e del Cartagena proposero e organizzarono un’amichevole per raccogliere fondi e risollevare le milicias cartageneras e metterle in grado di riorganizzarsi e puntare, coordinatamente con i compagni della Provincia, su Madrid e Toledo. La partita, oltre a essere un derby da un certo retrogusto romantico, era anche di una non scontata competitività. Il Murcia infatti, nell’ultimo campionato giocato prima che scoppiasse la Guerra, si era qualificata prima nel terzo gruppo della Segunda Division perdendo poi però lo spareggio per salire in Primera Division, mentre il Cartagena era riuscito a fare il grande ritorno in Segunda distruggendo per 5-0 il Villareal sotto gli occhi entusiasti dei propri tifosi. Poi inizia la Guerra, iniziano i bombardamenti franchisti, tedeschi e italiani e si perde la voglia di giocare.

Però l’occasione di prendere il pallone in mano capita sempre, altrimenti la fai capitare. E di quella splendida partita rimane un’altrettanto splendida foto delle maglie mischiate di quei ragazzi che sorridono, si divertono e salutano a pugno chiuso il fotografo.

Perché alla fine non è che mancava la voglia di giocare ma la possibilità, perché siamo eterni bambini ma anche uomini che non hanno paura di niente, per far incazzare Franco, per far svagare i bombardati, per aiutare una città a rialzarsi in piedi.

Perché siamo tutti antifascisti.

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