Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

La Batalla de Florencia.

Se Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz fosse vissuto all’inizio del 1900, probabilmente avrebbe adattato e modernizzato così la sua famosa massima: “Il calcio non è che il proseguimento della politica con altri mezzi”. Un aforisma che sarebbe stato perfetto per il 1934, l’anno dei Mondiali di calcio in Italia.

Mussolini (del quale si può pensare di tutto, tranne che fosse stupido) ha lottato come un leone per farsi assegnare dalla FIFA l’organizzazione della seconda Coppa del Mondo. Ha intuito, lui che per primo ha codificato le forme rituali della dittatura moderna, che lo sport in generale, e il calcio in particolare, sono straordinari veicoli propagandistici. Hitler lo seguirà con le Olimpiadi del 1936, ancora una volta debitore dell’idea al suo modello non dichiarato. Jules Rimet, a quanto si dice, non ha simpatia per il fascismo, ma la FIFA già allora è un’organizzazione sulla quale il potere politico esercita un fascino senza pari; ed è così che, antipatia o meno, è proprio all’Italia che tocca l’organizzazione dei Mondiali. Metà del piano di Mussolini è andata in porto; adesso resta da alzare la Coppa, perché è solo attraverso la vittoria finale che il regime potrà vivere la sua apoteosi. Una sconfitta, va da sé, non è tollerabile.
L’ottavo di finale con gli Stati Uniti è un allenamento: finisce 7-1 e la nazionale di Pozzo può pensare alla prossima sfida, dove secondo pronostico dovrebbe aspettarla il Brasile del “Diamante nero” Leonidas e di Waldemar de Brito, futuro scopritore di Pelé. E invece no, perché il 27 maggio, al Ferraris di Genova, i favoritissimi brasiliani vivono la loro prima delusione mondiale perdendo 3-1 contro la Spagna. Un gol su rigore di “Chato” Iraragorri e la doppietta di Langara, fenomenale centravanti dell’Oviedo, sono più che sufficienti per battere i carioca, che segnano con Leonidas e sbagliano un penalty con Waldemar.

Brasile-Spagna 1-3: un giocatore carioca nella morsa delle furie rosse.

Mussolini, nervoso, chiede informazioni sulla Spagna, della quale poco si conosce. La Roja, in realtà, non è altro che una selezione basca più il catalano Zamora, leggendario portiere di Espanyol e Real Madrid. Tolto il Divino, i 10 che sono scesi in campo col Brasile sono infatti tutti euskaldunak: la coppia di difensori del Madrid CF (denominazione repubblicana del Real Madrid) Ciriaco-Quincoces, i mediani Cilaurren, Muguerza e Markuleta e i cinque giocatori offensivi (si gioca col Metodo), ovvero Gorostiza, Iraragorri, Langara, Lafuente e Lekue.
Il pomeriggio del 31 maggio, allo stadio “Giovanni Berta” di Firenze (poi rinominato Comunale e “Artemio Franchi”), si disputa il quarto di finale tra Italia e Spagna. Gli azzurri di Pozzo giocano con Combi; Allemandi, Monzeglio; Pizziolo, Monti, Castellazzi; Guaita, Meazza, Schiavio, Ferrari e Orsi. La Spagna risponde con Zamora; Ciriaco, Quincoces; Cilaurren, Muguerza, Fede; Lafuente, Regueiro, Langara, Iraragorri e Gorostiza. Il selezionatore García de Salazar ha operato due sostituzioni, togliendo Markuleta e Lekue per il cántabro Fede e il basco Regueiro, grande interno del Madrid. L’arbitro è il belga Baert.
La partita inizia nel segno della Spagna, che domina il gioco grazie alla regia di Mugerza (il cervello dell’Athletic Bilbao, in quegli anni miglior squadra iberica) e non mostra di soffrire il fattore campo. Comincia allora a entrare in azione la vera arma degli azzurri: Luisito Monti. L’oriundo argentino, mediano tanto intelligente tatticamente quanto violento e brutale nei contrasti, è incaricato di azzoppare in modo scientifico i più pericolosi tra gli avversari, e contro gli spagnoli il lavoro non gli manca. È proprio da un suo fallo su Iraragorri che al 30’ nasce il gol delle furie rosse: Langara, per una volta uomo assist, batte velocemente la punizione e serve in area Regueiro, che controlla perfettamente e supera Combi di sinistro. L’Italia non ci sta e si riversa in attacco, trovando il pareggio al 44’. Ecco come Gianni Brera descrive il gol nel suo Storia critica del calcio italiano: “Punizione di Pizziolo. Esce Zamora e Schiavio lo carica, facendogli perdere la palla: riceve Ferrari e infila. Nel corso dell’azione decisiva, Meazza viene colpito d’inzuccata e portato fuori in barella”. Il giornalista e scrittore (del quale abbiamo una ben misera opinione, se ci è concesso dirlo) sembra quasi imbarazzato nella descrizione del gol, lui che solitamente ama le iperboli e l’epica applicata al calcio. Ne ha ben donde, visto che in realtà Zamora stava per impadronirsi tranquillamente della punizione senza pretese di Pizziolo, ma non ha potuto farlo a causa di un paio di pugni rifilatigli da Schiavio; è per questo motivo che la palla è arrivata a Ferrari, libero di insaccare a porta vuota. Lo stesso imbarazzo prende Brera al momento di raccontare il resto della partita, riassunto con due righe in stile telegramma: “Nessuna rete nel secondo tempo e nei supplementari. Battaglia selvaggia. L’arbitro Baert si comporta come chi sa benissimo dove si gioca”. Dimentica di dire, Brera, che la ripresa è una farsa e un massacro. Una farsa perché agli spagnoli viene fisicamente impedito di avvicinarsi alla porta di Combi, visto che Baerts fischia fallo ogni volta che il pallone arriva sulla trequarti; e un massacro perché Monti e compagni picchiano senza alcuna remora, trasformando la partita in una battaglia campale. Non a caso, in Spagna il match verrà ricordato come Batalla de Florencia.

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Firenze, 31 maggio 1934. Zamora in uscita durante una delle numerose mischie in area spagnola.

Tra un calcione e un cazzotto (gli spagnoli, giustamente, non stanno a guardare), l’arbitro trova il tempo di annullare un gol a Lafuente per un fallo visto solo da lui, mentre nei supplementari le squadre sono sfinite e non accade più nulla.
Il giorno successivo si gioca la ripetizione, sempre a Firenze. Pozzo cambia quattro uomini. Il suo collega, invece, deve fare a meno di sette giocatori, tra i quali Ciriaco, Gorostiza, Iraragorri, Langara e Zamora, che ha due costole fratturate e un occhio malconcio a causa di un pugno. Anche l’arbitro è diverso, ma bastano un paio di entrate per capire che lo svizzero Mercet è intenzionato a permettere il gioco duro degli italiani come e più di Baert. Bosch, sostituto di Gorostiza, subisce un fallo durissimo di Monzeglio ed è costretto a uscire dopo pochi minuti. In 10 uomini la Spagna subisce gol all’11’: corner di Orsi, Guaita carica Nogués, sostituto di Zamora, e Meazza segna di testa. Una foto celebre immortala il momento, e si vede chiaramente Meazza saltare sulla schiena di Guaita mentre Nogués, letteralmente spostato dalla linea di porta, è proteso in un tuffo impotente alle sue spalle. Mercet però fa finta di nulla e convalida.

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Firenze, 1 giugno 1934. Il gol di Meazza, che salta su Guaita. Nogués, il portiere, è l’ultimo a sinistra.

Gli italiani continuano a picchiare impunemente, protetti dal direttore di gara e dal loro ducetto, in quel momento a Roma. Alla mezz’ora Bosch prova a rientrare, anche se cammina a stento, ma il suo sacrificio serve a poco visto che Chaco quasi sviene per un’entrata violentissima e Quincoces subisce una forte botta al costato che lo limita fortemente. A inizio ripresa Mercet completa l’opera annullando un gol a Regueiro per fuorigioco più che dubbio di Campanal. Quincoces, rimasto fuori vari minuti per un’altra botta, rientra stringendo i denti ma la Spagna torna lo stesso in 10 uomini, perché Bosch proprio non ce la fa a stare in campo e deve uscire per la seconda e ultima volta. Nonostante tutte queste sciagure le furie rosse resistono e provano a gettarsi in attacco negli ultimi minuti, senza però trovare il gol che manderebbe la partita ai supplementari. Finisce così 1-0 per l’Italia la seconda parte della Battaglia. Gli azzurri si radunano a centrocampo per il saluto fascista, gli spagnoli rispondono mimando con rabbia una parodia di saluto verso l’arbitro e le autorità.

Il furto è sotto gli occhi di tutti, ma i quotidiani dell’epoca si guardano bene dallo scrivere come sono andate realmente le cose. Non lo faranno neppure tanti giornalisti e scrittori negli anni seguenti; seguendo l’esempio di Brera, derubricheranno a partita dura e nient’altro ciò che fu una rapina a mano armata e un’aggressione fisica ai danni della Roja lunga 210 minuti.
L’Italia coronerà il suo cammino trionfale, già scritto nelle stanze del potere, battendo l’Austria in semifinale e la Cecoslovacchia nella finalissima. Contro il Wunderteam di Meisl, una delle più grandi nazionali di ogni epoca, lo schema sarà identico a quello dei quarti con la Spagna.
Mussolini gioisce per la vittoria, dando linfa ulteriore al suo regime in piena fase ascendente. Gioirà meno un pomeriggio di fine aprile di 11 anni dopo, ma questa è un’altra storia.
La Spagna, unica squadra a uscire imbattuta da un confronto con i campioni, guarda con fiducia al prossimo Mondiale, quello del 1938. Ma nel 1936 il colpo di Stato dei generali, dei quali alla fine rimarrà solo Franco, distruggerà la Repubblica e impedirà alle furie rosse di inseguire il loro sogno iridato. Sarà la triste conclusione della storia di una squadra fortissima, arresasi per due volte al fascismo ma mai battuta sul campo.
René Mercet non arbitrerà più alcun incontro internazionale.

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