Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

¿Hasta el año que viene, eh?

Aveva dormito male, malissimo. Anche se non ricordava cosa aveva sognato, era sicuro di aver avuto almeno un paio di incubi orrendi. Ora aveva un mal di testa lancinante e gli sembrava che lo stomaco si fosse ripiegato su sé stesso. Non mangiò niente, bevve solo un caffè che però non risolse la situazione, anzi. Allora prese un paio di aspirine e sperò che il dolore passasse. Annullò tutti gli appuntamenti e ordinò di non essere disturbato. Doveva riposare. Alle 18.15 sarebbe iniziata la partita, e lui avrebbe dovuto essere in piena forma per assistervi. Quella storia stava iniziando davvero a stancarlo. Tutti gli dicevano che sarebbe stata una passeggiata, ma in fondo che ne sapevano loro? Erano abbagliati dalla vittoria in Coppa dei Campioni contro il Milan di Liedholm, dalle magie di Di Stéfano, dai dribbling di Gento, dalla regia sopraffina di Kopa. A lui invece il calcio faceva schifo, letteralmente. Gli era utile, certo, ma vedere quei 22 imbecilli correre avanti e indietro per disputarsi una stupidissima palla lo faceva quasi infuriare. Ed era proprio perché detestava il calcio che non si sentiva sicuro. Chi profetizzava una vittoria sicura del Real Madrid, a cui niente e nessuno avrebbe potuto togliere il primo triplete della storia del calcio spagnolo, non aveva capito nulla. Né del futbol, né della gente che il Madrid si sarebbe trovato davanti quella sera.
I baschi… Avrebbe pagato un milione di pesetas per ogni abitante di quel buco per mandarli tutti in Siberia, o nel Sahara, o da qualunque altra parte che non fosse la Spagna. Gente testarda oltre ogni dire, orgogliosa fino all’autolesionismo, attaccata a quel pezzetto di terra come un neonato alle tette della madre. Se c’era una cosa che lo faceva infuriare più del calcio, erano i baschi. E stasera se li sarebbe trovati davanti.
Era stato un errore far giocare la finale a Madrid, lo sapeva fin dall’inizio. Quell’idiota di Alonso Vega, invece, aveva insistito fino a prenderlo per sfinimento, ma quando aveva proposto a Guzmán, il presidente dell’Atlético, di giocare al Metropolitano, quello aveva tirato fuori una bilbainada: niente Metropolitano, giochiamo al Bernabéu, così potranno scendere più tifosi da Bilbao. Poteva sembrare una sbruffonata, una bilbainada appunto, ma lui era convinto che in realtà Guzmán avesse servito a tutti loro una polpetta avvelenata. Ora Madrid era piena di migliaia di tifosi bilbaini, scesi in macchina, in taxi, perfino con un treno speciale da 20 vagoni, e quasi tutta la Spagna, anche quella che non poteva soffrire i baschi, aveva finito per simpatizzare con l’Atlético. La partita era diventata proprio quello che lui non voleva: una sfida tra Davide e Golia davanti ad un’intera nazione. Qualcuno gli aveva detto che quel giorno, più o meno alla stessa ora, in Svezia si sarebbe giocata la finale del Campionato del Mondo tra i padroni di casa e il Brasile, ma era pronto a scommettere che in Spagna nessuno o quasi l’avrebbe seguita. Ogni radio del Paese sarebbe stata sintonizzata sulla sfida del Bernabéu. Perfino la TVE, la televisione di Stato, avrebbe trasmesso l’evento. Una sola, stupidissima partita avrebbe potuto trasformarsi in una figuraccia nazionale.
Basta, non doveva pensarci più. C’era da rompersi la testa, e in ogni caso non poteva far nulla. Aveva perfino consultato una delle sue cartomanti favorite, ma il verdetto favorevole ai blancos non lo aveva comunque reso più tranquillo. Il mal di testa era ancora lì a tormentarlo. Per smettere definitivamente di rimuginare sulla partita decise di tornare a letto. Lo comunicò all’attendente e chiese di essere svegliato alle 16. Forse, per quell’ora, il dolore sarebbe sparito, e con esso anche quella sensazione di beffa imminente che non voleva proprio abbandonarlo.

La comoda poltrona della tribuna delle autorità gli sembrava quasi uno strumento di tortura medioevale. Il sonno non aveva giovato: si era alzato tutto indolenzito e il mal di testa stava martellando con più forza di quando si era coricato. E le chiacchiere, le chiacchiere intorno a lui, continue e fastidiose… lo stavano facendo impazzire. Era in momenti del genere che si rendeva conto di essere circondato da dei veri idioti.
“Quanti gliene facciamo, oggi?”.
“Visto che in campionato è finita 6-0… almeno sette, forse anche otto!”.
“E da loro come è andata?”.
“2-0 per noi, se non ricordo male. Questi non ci segnano neppure fra un anno!”.
Erano talmente tronfi e boriosi, tutti quanti, da non prendere neppure in considerazione l’idea di una sconfitta. Stavano commettendo un errore fatale: sottovalutavano gli avversari. Lui non lo aveva mai fatto, per questo era ancora lì. Pregò che i giocatori del Madrid non cadessero in quel tranello. Carniglia, a quanto si diceva, era un buon allenatore, ma in campo non andava lui. Gento era rotto. E gli extranjeros non potevano giocare: sarebbe stato ridicolo, nella Copa del Generalísimo. Le merengues sarebbero scese in campo con qualche riserva di troppo, mentre davanti a loro l’Atlético sarebbe stato quello di sempre, solido e rodato: per un club che utilizzava solo giocatori del País Vasco, il divieto di far giocare stranieri in Coppa era del tutto irrilevante. Undici baschi pronti a tutto per vincere. Anzi, a ben guardare erano qualcosa di più di undici baschi: erano undici vizcainos, undici compaesani. Soltanto un cieco o uno stupido non avrebbe fiutato il pericolo. Per fortuna nessuno gli rivolse parola, altrimenti avrebbe anche potuto diventare scortese. Quando non era aria, i topi lo fiutavano subito e se ne stavano in disparte. Solo la moglie provò a conversare con lui, ma quel giorno anche Carmen gli dava sui nervi.
Dopo un’attesa che gli sembrò infinita, la squadre entrarono finalmente in campo. Il Real Madrid, nel suo classico completo bianco, scompariva nel contrasto cromatico col biancorosso della maglia e il nero dei pantaloncini dell’Atlético. Un altro segno che non lo lasciò tranquillo. Osservò i capitani scambiarsi il saluto. Juan Alonso, portiere del Madrid, tornò verso la sua area, mentre Gainza si voltò verso la tribuna delle autorità. Ebbe l’impressione che cercasse proprio lui, anche se da quella distanza sarebbe stato impossibile affermarlo con certezza. La partita iniziò subito dopo, accompagnata dal boato dei 125.000 spettatori in delirio.
Nonostante i tifosi di Bilbao fossero scesi nella capitale in un numero pazzesco per l’epoca, i loro incitamenti erano impossibili da udire nel caos delle grida dei sostenitori madridisti. Lo stadio era una marea in costante movimento, uno spettacolo impressionante anche per lui. Le curve e la tribuna di fronte alla sua ondeggiavano ad ogni azione pericolosa, rispondendo agli stimoli del campo come se fossero dotate di vita propria. Forse era questa la magia del calcio, chissà. Man mano che i minuti passavano, però, l’iniziale entusiasmo si attenuò, sostituito da un sordo mormorio che accompagnava ogni sortita offensiva dell’Atlético. I bilbaini tenevano bene il campo, erano compatti e non parevano soffrire la pressione di giocare in quello stadio contro i freschi tricampioni d’Europa, e il pubblico se ne stava accorgendo.
Iniziò ad agitarsi impercettibilmente sulla poltrona. I suoi occhi piccoli e stretti si posavano sempre più spesso su Gainza, che a 36 anni compiuti si muoveva sulla fascia con un’eleganza ancora senza pari. In particolare, era rapito dal piede sinistro di Piru, come lo chiamavano i tifosi: più che un piede gli sembrava una mano guantata, che accarezzava con dolcezza il pallone ma sapeva anche colpire come un pugno sferrato all’improvviso, di pura potenza. Gli altri giocatori, quando non sapevano cosa fare, gli davano la palla e aspettavano, sicuri che non l’avrebbe persa. Cosa che, infatti, non accadeva praticamente mai. Lui non seguiva il futbol, ma ciò non significava che non sapesse tutto di Gainza. I nemici, come amava ripetere, vanno conosciuti. Era a un suo assist di testa, e al successivo gol di Telmo Zarra (un altro basco, una maledizione), che si doveva la vittoria sulla Perfida Albione ai Mondiali del 1950. Piru era un folletto imprendibile che abitava la fascia sinistra e da lì, come uno gnomo delle fiabe, creava arcobaleni invisibili al termine dei quali, al posto di una pignatta colma di monete d’oro, gli attaccanti trovavano i gol. I compagni lo amavano perché non era egoista e preferiva il pase de la muerte al gol, il cross al tiro, il dribbling per andare sul fondo all’inserimento centrale. Mica perché non sapesse come segnare, tutt’altro. Una volta, contro il Nastic di Tarragona, era entrato in porta col pallone dopo aver saltato quattro giocatori e aver ingannato il portiere fintando un passaggio; in un’altra occasione, durante un derby con la Real Sociedad, aveva beffato il numero 1 avversario Eizaguirre scavalcandolo con un incredibile tiro direttamente da calcio d’angolo. Da ragazzo, dicevano, a Piru non piaceva il calcio. Aveva iniziato come portiere perché non voleva correre e sudare, poi una volta lo avevano provato a sinistra, in quanto unico mancino, e adesso era lì, dopo quasi 20 anni di carriera, a giocare da pari a pari con la squadra più forte del mondo. Quella partita era il suo canto del cigno e Gainza la stava interpretando in modo magistrale.
Al 20′ Eneko Arieta, che aveva preso il posto di Zarra dopo il ritiro del leggendario ariete, controllò un pallone al limite dell’area e, senza pensarci troppo, tirò: gol. Il Madrid era sotto. I tifosi baschi esultarono, ma dalla tribuna sembravano solo tante formiche che scalavano silenziosamente una collinetta. Il resto del pubblico si fece sentire per dare la carica ai suoi beniamini, stranamente mosci e fuori dal match. Dietro di lui si alzò un commento a voce alta: “Niente paura, è un fuoco di paglia. Non reggono fino alla fine, non contro di noi. Con un solo gol non vanno da nessuna parte”. E infatti, dopo 3 minuti, l’Atlético raddoppiò: palla messa in mezzo da Uribe, tiro al volo di Mauri, 2-0. Un dirigente del club bilbaino scattò in piedi: “Siamo grandi!”, gridò. I tifosi baschi ora si sentivano eccome: il Bernabéu era muto, smarrito, sgomento. Non si capacitava di quel risultato, un ceffone a mano aperta datogli senza alcun timore da capitan Gainza e dai suoi scudieri. Adesso non parlate, eh, imbecilli?, pensò, soppesando il silenzio greve alle sue spalle. Serrò i pugni mentre veniva percorso da un brivido di rabbia. Quei bastardi lo stavano facendo per davvero. Certo, di tempo per recuperare ce n’era, ma quella era una giornata destinata alla sconfitta. Lo aveva capito fin da quando aveva aperto gli occhi.
Il Real Madrid, giù in campo, non era meno sorpreso delle migliaia di persone che erano accorse per vederlo tirare su il terzo trofeo dell’anno e adesso se lo sentivano scappare. Carniglia sacramentava in panchina, urlando indicazioni che nessuno stava a sentire. Alonso, il capitano, se ne stava solitario tra i pali, testa bassa e braccia inerti lungo i fianchi. Atienza guardava Santamaría, Santamaría guardava Joseíto, Joseíto guardava Rial e tutti guardavano Di Stéfano, che sembrava il più sperduto di tutti. Saeta Rubia era stanco dopo la lunga, trionfale stagione e la marcatura asfissiante di Etura lo aveva praticamente fatto scomparire dal “suo” prato.
In tribuna, l’uomo chiuse gli occhi. Non c’era più nulla da fare. Il punteggio non era ancora compromesso, ma le facce in campo non mentivano. Da una parte c’erano degli uomini con gli occhi spiritati e la bava alla bocca, dall’altra dei ragazzini spauriti. E poi c’era Gainza. Non aveva segnato, ma con la sua sola presenza aveva dato forza ai compagni. In campo era sceso un ragazzino di 19 anni che in pochissimi conoscevano, Koldo Agirre: stava facendo una partita fantastica. E così anche Carmelo, Orue, Garay, Etura, Canito, Mauri, Uribe, Artexe e Arieta. Undici compaesani che stavano violando lo stadio più sacro d’Europa. Riaprì gli occhi. Se solo avesse potuto alzarsi e andarsene, lasciando le incombenze del caso a uno dei suoi leccapiedi… Ma non avrebbe mai dato quella soddisfazione ai suoi nemici. Si sistemò meglio sulla poltrona, dove era sprofondato per lo sconforto. E si preparò ad altri 70 minuti di lenta agonia.

Il signor González Echevarría fischiò la fine: l’Atlético era campione. Il risultato finale di 2-0 non rispecchiava fino in fondo la netta superiorità dei biancorossi, che avevano giocata una partita commovente ed avevano conquistato la loro ventesima Coppa nelle condizioni ambientali più difficili. Di Stéfano, più tardi, avrebbe reso onore ai campioni. Ma adesso toccava a lui. Doveva consegnare la coppa a Gainza, il capitano. Si alzò in piedi seccamente, consapevole che in molti lo stavano osservando. Era furioso, eppure non c’era nemmeno l’ombra di un’emozione sul suo volto inespressivo. Piru arrivò dopo qualche minuto, seguito dalla squadra. Lui aveva già in mano la coppa. Lo guardò con attenzione: né alto né basso, tratti duri, occhi espressivi e intelligenti. I capelli, tirati indietro e lucidi per la brillantina, sembravano quelli di un qualsiasi spettatore, come se non avesse neppure sudato. Ma aveva corso eccome, lui lo aveva visto.
Quando gli fu davanti, si sporse per consegnargli il trofeo. Si costrinse a sorridere nel modo più cordiale che gli riuscisse in quel momento e, per sembrare ancor più cortese, gli disse “Un’altra volta qui!”, sperando in tal modo di portarlo, anche solo per un attimo, dalla sua parte. Non era una frase a caso: negli ultimi quattro anni, quella era la terza vittoria dei bilbaini.
Gainza annuì, senza replicare. Allungò le mani quasi disinteressato ma poi, d’improvvisò, alzò lo sguardo verso di lui, un ghigno sardonico che gli occupava il volto. “¿Hasta el año que viene, eh?” rispose, poi afferrò la coppa e andò a festeggiare con i compagni.
Per poco lui non scivolò di sotto. Brutto figlio di puttana! Farsi beffe di me qui, e in questo modo! Sfidarmi davanti a tutti! – pensò, ma fu solo un attimo. Si rimise dritto, impettito come suo solito, cercando di stare leggermente in punta di piedi per apparire più alto. Senza voltarsi, ma afferrandosi con entrambe le mani alla balaustra, disse: “Non voglio più vederli con una delle mie coppe in mano per almeno dieci anni… Sono stato chiaro?”.
Sul momento, nessuno del suo codazzo si mosse. La sua voce era calma e controllata, ma dalla postura, dalla tensione che emanava dalle mani strette come due morse attorno al ferro, chiunque aveva capito che era sul punto di sbottare. Non rispondere sarebbe però stato molto peggiore, perciò un colonnello di una quarantina d’anni fece un passo avanti. Il suo comandante gli stava davanti: era un uomo piccolo, brutto, irrilevante. L’uniforme gli andava un po’ larga, il cappello pure. Ma era l’uomo più potente di Spagna, e un basco lo aveva appena umiliato. “Sarà fatto, Generalísimo Franco!”.

Agustín Gainza Bikandi, detto Piru, (Basauri, 28 maggio 1922 – Basauri, 6 gennaio 1995) è, con Pichichi e Iribar, uno dei componenti della Triade della leggende biancorosse. Ala sinistra, raccolse l’eredità di Gorostiza e ben presto riuscì a soppiantarlo nel cuore dei tifosi: meno veloce e potente ma più tecnico e portato al dribbling e all’assist, giocò per 20 stagioni nell’Athletic, guidandolo anche da capitano e vincendo 2 campionati e 7 Coppe (record assoluto). Tra i suoi vari primati, anche il più alto numero di gol segnati in un solo incontro di Coppa, 8. Fu uno dei membri principali della “delantera fantastica”, la linea offensiva più forte della storia del club, che formò insieme a Venancio, Panizo, Iriondo e Zarra. In carriera, Gainza giocò 492 partite e segnò 152 reti (con 33 presenze e 10 gol in nazionale). Dopo il ritiro allenò l’Athletic per 4 anni, dal 1965 al 1969, arrivando due volte in finale di Coppa. Al suo funerale parteciparono più di 3000 persone. In seguito, gli venne dedicata una via a Basauri e l’Athletic lo omaggiò con un busto a Lezama, sede delle strutture di allenamento e dei campi delle giovanili. La finale del 1958 contro il Real Madrid di Di Stéfano, fresco vincitore della sua terza Coppa dei Campioni consecutiva, è probabilmente la partita più celebre dell’intera storia dei biancorossi. Nonostante l’Athletic fosse considerato una sorta di vittima sacrificale sulla via del triplete dei blancos, anche a causa della decisione di giocare al Santiago Bernabéu, riuscì a sorprendere tutti e ad aggiudicarsi il trofeo. “¡Con once aldeanos, les hemos pasado por la piedra!” disse il presidente dell’Athletic Guzmán durante i festeggiamenti a Bilbao, facendo entrare di diritto nel mito la “finale degli undici compaesani”. Il dialogo tra Franco e Gainza fu ascoltato e riportato da molti testimoni, mentre l’ordine impartito dal dittatore subito dopo è del tutto immaginario. In ogni caso, per vincere la sua ventunesima Coppa l’Athletic avrebbe dovuto aspettare 11 anni.

Questo racconto è stato pubblicato il 29 maggio 2015 su Lacrime di Borghetti.

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5 Comments

  1. Dario Febbraio 3, 2016

    Racconto memorabile.
    Mentre leggi diventi parte della scena, ti immagini di essere lì, scagliato indietro nel tempo a goderti la faccia del Generale.
    Probabilmente è una delle partite di calcio più importanti e significative della Storia.
    La sola idea della Sfida fa venire i brividi.
    Così le circostanze ed il contesto storico.
    In una giornata, l’emblema della divisione del mondo.
    Noi e loro.
    Chapeau Edo, veramente un gioiello.
    E complimenti per il sito: fantastico.
    Aupa Athletic.

  2. Fabrizio Febbraio 5, 2016

    Bellissimo racconto di uno degli eventi più importanti della storia del pallone.
    L’unico piccolo appunto è che, alcune volte, è riportato “Atletico” e non “Athletic”.

    • Edoardo Molinelli Febbraio 5, 2016 — Post Author

      Ciao Fabrizio, ti ringrazio per i complimenti. La scelta di utilizzare Atlético al posto di Athletic è voluta: durante il franchismo il nome della squadra, come tutti quelli di origine straniera, fu spagnolizzato; il racconto è ambientato negli anni ’50 e la squadra allora si chiamava Atlético de Bilbao, non Athletic Club. Nell’originale avevo inserito una nota per spiegare la cosa, nota che purtroppo si è persa nel copincolla. Un saluto!

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