Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Non mi lego a questa schiera, morrò pecora nera.

Giorgios Samaras è quello alto, con la barba. Da come si muove non sembra nemmeno un calciatore, pare uscito da quei gruppi rock un po’ alternativi che spopolano su Youtube e nei festival in giro per l’Europa. Non è uno da Oasis, forse più da Tame Impala. Ha i capelli lunghi e lisci, liscissimi. Gli cadono sulle spalle e scendono giù, arrivando fino alle scapole. Quando corre la chioma gli batte leggermente sulla schiena. Non usa passate o fermagli, gioca libero e senza costrizioni. Spesso indossa un paio di guanti verdi, come il colore che fa da padrone nel suo abbigliamento. Verde e bianco, la divisa del Celtic Glasgow. Se giocare per il Celtic vuol dire già di suo essere contro, volersi estraniare dalla massa, farlo come lo fa Georgios Samaras è qualcosa di totalmente eccezionale. Eccezionale nel senso che un giocatore del genere è davvero un’eccezione: alto come un ciliegio, secco come un giunco, aggraziato come un fior di loto. Samaras sa essere un calciatore fuori dagli schemi pur non essendo un fenomeno, sa farsi voler bene e al contempo incarnare il vero spirito del Celtic. Samaras è uno dei Bhoys ma non sta in curva, lui i tifosi li fa cantare. Sembra fatto apposta per far innamorare il popolo, non si cura degli standard di vita di un calciatore normale. Non è una starlette, è uno fuori dal coro, una pecora nera del calcio.

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La prima diapositiva di Samaras lo vede girato di spalle, con la maglia numero nove che non entra tutta nell’obiettivo. I capelli sono lì, fluenti, e tenuti a bada dal sudore nonostante il freddo gelido. Samaras ha la faccia fissa su Kyle Bartley, di tre quarti. Il difensore del Rangers gli è appena andato incontro per protestare per un brutto fallo del greco, ma ha trovato duro. Si gioca Rangers contro Celtic e ovviamente non può essere una partita come tutte le altre, anche a costo di prendere una manciata di retorica e spiattellarla di fronte a migliaia di spettatori ansiosi per l’Old Firm. Il Celtic è più di una squadra, è un sentimento, e Samaras non può che essere quel sentimento di ribellione che trasuda da ogni maglia, da ogni striscione al Paradise. Bartley nella diapositiva ha un’espressione attonita, non può essere quella di uno che è appena andato petto contro petto con un altro. Il perché di quello sguardo un po’ perso è da ricercare nella gestualità di Samaras, che ha appena indicato il tabellone luminoso ai lati del terreno di gioco. E quel tabellone dice Celtic 1 – Rangers 0, il nome che compare sotto ai Celts è proprio Samaras. Ancora una volta uno dei Rangers rimane muto di fronte al greco, era successo anche pochi mesi prima quando con una doppietta aveva annientato i Gers, molto più che semplici nemici.

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La seconda diapositiva vede ancora una volta Samaras di spalle, ma stavolta non ha la maglia numero nove. Si legge “Champions” e sotto il numero 14, come l’anno in cui il Celtic ha appena vinto il titolo. Samaras è in scadenza di contratto, ha appena giocato la sua ultima gara di campionato con i Bhoys e sta facendo il giro d’onore. In braccio a Samaras c’è un bambino che indossa degli occhiali spessi, rigorosamente verdi con tratti bianchi, e ha un sorriso sulle labbra commovente. Si chiama Jay Beatty, ha solamente undici anni, è affetto da sindrome di Down e molto probabilmente, dei quasi cinquantaduemilaquattrocento al Paradise, in quel momento è il più felice. Poco prima, con accanto suo padre quasi in lacrime, è stato abbracciato da Neil Lennon che gli ha donato la medaglia per la vittoria della Scottish Premier League. Ancora incredulo, Jay è stato avvicinato dal gigante dai capelli lunghi che lo ha preso in braccio e lo sta portando a spasso per Celtic Park, in mezzo ai giocatori e di fronte a una folla esultante di tifosi. Samaras ha compiuto un gesto spontaneo, dettato dal buon cuore e non dalla voglia di apparire. Se lo è sentito e lo ha fatto, così come Lennon poco prima. Perché essere del Celtic significa anche essere del popolo e vicino al popolo, in questo caso ai tifosi. Samaras questo non lo dimentica.

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La terza diapositiva vede Samaras di fronte, per una volta. Ha la divisa della Grecia, non del Celtic. Accanto a lui c’è Theofanis Gekas, ha sulla faccia un’espressione inebriata e nn guarda l’obiettivo. Dietro, Lazaros Christodoulopoulos esulta e per poco non cade. Samaras si staglia, seppur di lato, in tutto il suo metro e novantadue. Ha la maglia forse un tantino larga, mantiene un volto greve e severo ma in realtà ha appena fatto saltare in piedi una nazione che per mesi è stata in ginocchio. All’ultimo istante dell’ultima partita della fase a gironi di Brasile 2014, si è guadagnato un calcio di rigore e lo ha trasformato mandando la Grecia agli ottavi di finale della Coppa del Mondo. Nel giugno del 2014 la Grecia è un paese in piena crisi economica, ha da pochi mesi sfiorato il default vero e proprio dopo quasi quattro anni di indebitamento. Samaras con quel rigore ha ridato il sorriso a milioni di greci, seppur in maniera temporanea ma ha fatto dimenticare per un secondo tutti i dolori di una nazione. La Grecia uscirà agli ottavi ai rigori con la Costa Rica ma, in un momento come quello, Samaras ha realizzato l’ennesimo sogno.

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