Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Lo strano caso dell’Athletic Club di Bilbao.

L’Athletic Club di Bilbao rappresenta un caso unico nell’intera storia del calcio mondiale, scrisse L’Equipe in un editoriale degli anni ‘60. Da allora le cose sono cambiate solo in minima parte e gli zurigorri (“biancorossi” in euskara, la lingua basca) continuano ostinatamente a combattere la loro battaglia, di retroguardia secondo i detrattori, contro il fútbol moderno e le sue ineffabili storture. Impossibile definire in altro modo la tenace adesione a un modello sportivo, la celebre “filosofia dell’Athletic”, che per gli sportivi più romantici rappresenta l’Eden, mentre per gli amanti del calcio-business è solo un carrozzone anacronistico. Una filosofia che da quasi cento anni fa sì che il club utilizzi un bacino ristrettissimo di giocatori: quelli nati nei Paesi Baschi (nell’accezione di Euskal Herria, che comprende cioè anche Navarra e paesi baschi francesi) o cresciuti fin da giovanissimi nel vivaio di un’altra squadra basca.
È questo il motivo del legame strettissimo, indissolubile, dell’Athletic con la sua terra. Per un popolo che fu costretto ad affrontare prove terribili durante la dittatura di Franco, il calcio divenne un fondamentale baluardo culturale: mentre le ikastolak, le tradizionali scuole basche, venivano sbarrate, l’uso dell’euskera proibito per legge e ogni simbolo basco vietato, l’Athletic e la Real Sociedad di Donostia-San Sebastián, unite dalla medesima filosofia, rappresentavano per migliaia di persone l’unico mezzo attraverso il quale difendere la propria identità e manifestare la propria natura.

Dopo che la Real Sociedad, nel 1989, decise di acquistare l’irlandese John Aldridge, l’Athletic rimase l’unico club a utilizzare esclusivamente giocatori del posto, tradizione che si è perpetuata fino a oggi; una perseveranza coraggiosa, forse perfino folle se esaminata con gli occhi del risultato a ogni costo, capace però di conferire alla squadra un’aura di leggenda che si è fatta sempre più forte con il progredire della deriva affaristico-spettacolare del pallone. Sordi alle profezie di sventura di chi pontificava che la sentenza Bosman avrebbe distrutto il fragile equilibrio sul quale si regge il club zurigorri, i bilbaini si sono ancor più intestarditi a voler mostrare al mondo la perfetta sostenibilità del proprio modello. Così, nonostante la trentennale astinenza di vittorie (interrotta proprio lunedì 17 agosto con la conquista della Supercoppa di Spagna contro il Barcelona di Messi, Neymar e Suárez), l’esilio che la squadra si è autoimposto ha finito per conquistare una fetta sempre più ampia di tifosi, attratti da un modo nostalgico di fare calcio e troppo spesso delusi dalla trasformazione del loro sport preferito in un prodotto di mercato. Affezionarsi a una maglia è facile, più difficile è farlo con i bilanci, le società quotate in borsa e le speculazioni dei fondi d’investimento.

Nel mondo Athletic tutto è differente, a partire dalla struttura della società: i proprietari del club sono i soci, attualmente più di 44.000, che ogni quattro anni eleggono un presidente. Ciò assicura di tenere lontani, almeno sulla carta, gli speculatori e gli affaristi, visto che i soldi messi sul piatto non provengono da patrimoni personali più o meno legali; non a caso il presidente attuale è Josu Urrutia, ex capitano della squadra negli anni ’90.
Bilbao è una riserva protetta, una delle ultime realtà calcistiche dove i sentimenti talvolta riescono a prevalere sul business. Retorica? Forse, ma basta camminare per la città e vedere i bambini che giocano al parco indossando le maglie biancorosse, invece di quelle del Real Madrid, del Barcelona o di qualche multinazionale straniera tipo Chelsea o Bayern Monaco, per rendersi conto di respirare un’aria diversa. D’altra parte ciò è solo una logica conseguenza dell’importanza data dal club al proprio vivaio, la celeberrima cantera de Lezama, che per ogni bambino di Bilbao rappresenta un sogno molto più concreto rispetto ad altre realtà. Il passaggio dalle giovanili alla prima squadra è chiaramente difficilissimo (le rose delle squadre della Liga devono essere composte da 25 giocatori al massimo, dunque i posti sono contati), ma quasi ogni bizkaino ha un parente, un amico o un conoscente che ha fatto parte almeno di una formazione minore del club. Molti giocatori sono anche tifosi del club fin dalla più tenera età, ed è per questo motivo che l’Athletic può vantare una collezione ricchissima di bandiere e un numero molto limitato di tradimenti; il fenomeno dei mercenari è quasi inesistente, perché per un tifoso non c’è niente di più bello che poter difendere in campo i colori del proprio club. Certo, non mancano casi di calciatori biancorossi che decidono di andare a guadagnare di più e a tentare di vincere trofei altrove (Javi Martínez, Fernando Llorente e Ander Herrera i più recenti), ma si tratta per lo più di giocatori cresciuti fuori da Lezama o comunque con un legame debole con Bilbao e la Bizkaia. Per qualcuno che se ne andrà, ci sarà sempre uno Julen Guerrero che rifiuterà offerte milionarie (nel suo caso del Real Madrid e della Lazio di Cragnotti) per indossare la zurigorri per tutta la carriera. L’Athletic è Bilbao, la sua gente, il suo carattere; e Bilbao non chiede all’Athletic di vincere, ma solo di restare fedele a sé stesso. La permanenza in Primera División vale quanto un campionato, disputare una finale conta quasi più di alzare una coppa: come ha detto Iker Muniain, uno dei migliori calciatori della rosa attuale, solo a Bilbao è meglio arrivare secondi che vincere.

Tuttavia, sarebbe un errore ritenere il glorioso l’Athletic totalmente senza peccato. È differente, certo, ma ciò non significa che sia perfetto.
Essere un caso unico all’interno di un mondo standardizzato come quello del calcio ha avuto anche un effetto collaterale: la tendenza all’agiografia da parte degli osservatori esterni. La grandissima maggioranza degli articoli e delle analisi dedicati all’Athletic, infatti, ripete fino allo sfinimento quanto sia incredibile e particolare una realtà del genere, finendo fatalmente per ignorarne quasi del tutto problematiche e contraddizioni. Che pure esistono, e sono anzi piuttosto preoccupanti.
L’ultimo esempio in ordine di tempo è rappresentato dalle proteste dei tifosi più caldi in seguito alla costruzione del nuovo stadio, che finora sono state più o meno ignorate sia dalla società che dai mezzi di comunicazione. Il vecchio San Mamés, la mitica “Catedrál” (così chiamata perché era lo stadio più antico di Spagna), per decenni è stato ritenuto il campo più difficile della Liga: il tifo era incrollabile e gli spalti praticamente incollati al terreno di gioco, cosa che rendeva duro per chiunque venire a far punti a Bilbao. Già negli ultimi anni, dopo le modifiche strutturali del Campionato del Mondo del 1982, l’atmosfera si era parecchio raffreddata, ma l’edificazione del San Mamés Barria (nuovo San Mamés) ha dato un ulteriore giro di vite: nonostante la capienza sia stata aumentata di quasi 15.000 unità, ai gruppi organizzati della vecchia Preferencia Norte è stato concesso solo uno spicchio nell’angolo di una delle due curve. Inoltre le lunghe liste di attesa per diventare soci, e quindi per ottenere i posti in abbonamento, fa sì che per molti giovani sia quasi impossibile assistere alle partite, anche perché il costo dei biglietti per i singoli incontri è uno dei più alti della Liga. Tutto ciò ha portato a un imborghesimento evidente del tifo e a un peggioramento notevole dell’ambiente dello stadio, sempre più freddo e silenzioso; e nonostante tale aspetto sia stato rilevato anche da parecchi avversari, sia tifosi che calciatori, nella visione mediatica San Mamés è sempre il solito catino degli anni ’80, anche se basta una veloce ricerca su Google Immagini o YouTube per rendersi conto che la realtà è un’altra.

Anche la vicenda di Iñigo Cabacas non sembra aver lasciato tracce nel racconto idilliaco della contemporaneità bilbaina. Cabacas, un tifoso “normale” secondo l’accezione dei media generalisti, stava tranquillamente bevendo una birra con i suoi amici nel dopopartita di Athletic-Schalke 04 del 5 aprile 2012; improvvisamente l’Ertzaintza, la polizia autonoma basca, arrivata sul posto per sedare una rissa già conclusa, caricò la folla innocua e utilizzò i proiettili di gomma per disperderla. Uno di questi centrò alla testa il 28enne Iñigo, uccidendolo dopo pochi giorni di agonia. Ad oggi nessun colpevole è stato individuato. La vicenda, aldilà della tragicità e dell’insensatezza, ha sottolineato una dolorosa discrepanza tra società e tifoseria: mentre la gente non ha mai smesso di ricordare e omaggiare Cabacas (la nuova curva si chiama infatti Iñigo Cabacas Herri Harmaila), il direttivo del club sembra considerare la morte del giovane come un problema e fa di tutto per minimizzarla e occultarla.
Eppure in pochi sembrano accorgersene, presi come sono a esaltare il modello sportivo e rafforzati dai buoni risultati delle ultime stagioni: finale di coppa nazionale e di Europa League nel 2012 con Marcelo Bielsa in panchina, qualificazione ai gironi di Champion’s nel 2013, finale di coppa nel 2014 e vittoria nella Supercoppa 2015, stavolta con Ernesto Valverde alla guida tecnica. In particolare, la campagna europea del 2012, pur conclusasi con una secca sconfitta in finale contro l’Atlético Madrid, rimarrà scolpita per sempre nella storia biancorossa: impossibile dimenticare le vittorie a Old Trafford e Gelsenkirchen e la qualificazione alla finale con un gol all’ultimo minuto. Imprese memorabili per una squadra così particolare.

Il riscontro del campo ha ulteriormente minimizzato i problemi e le contraddizioni interne al club. Non si parla più, per esempio, della sponsorizzazione delle maglie, rimaste immacolate per più di 100 anni e infine sporcate dalla pubblicità nel 2008, peraltro per un piatto di lenticchie. La maggioranza dei bilbaini ha accettato lo sponsor con pragmatismo, ma tanti tifosi continuano a non volere le maglie “macchiate” anche a causa delle aziende scelte, tutt’altro che limpide: ora Kutxabank, ramo della banca BBK responsabile di tanti sfratti, prima l’azienda petrolifera basca Petronor, la cui raffineria di Muskiz è da anni nel mirino degli ambientalisti – oltre a rappresentare un ecomostro che sfregia irreparabilmente quel tratto della costa bizkaina.
Anche in Italia la narrazione sull’Athletic è quasi sempre mondata delle contraddizioni che pure sono presenti, come se Bilbao fosse un Paradiso in terra nel quale i soldi e gli interessi non esistono e si fa calcio solo per amore. Quando si parla degli zurigorri, inoltre, nel nostro Paese si tendono a reiterare e ripetere luoghi comuni e inesattezze che inficiano molte analisi. Per questo abbiamo deciso di concludere riportandone e smentendone undici, come i giocatori di una squadra di calcio, nella speranza di poter chiarire alcuni punti controversi e restituire un’idea del club più aderente alla realtà. L’Athletic è una manifestazione umana e in quanto tale non è esente da errori, anche se resta ancora una squadra unica e continuerà ad esserlo finché rimarrà fedele al proprio spirito.

1) Il nome
La stragrande maggioranza degli articoli che si leggono in Italia sui biancorossi chiama la squadra Athletic Bilbao, il Bilbao o, ancor peggio, Atletico Bilbao.
La denominazione corretta è Athletic Club: spesso viene aggiunto “de Bilbao” per completezza, ma il nome ufficiale della squadra è composto solo da quelle due parole. Può sembrare una questione di lana caprina, tuttavia c’è molto di più. El Bilbao, come si scrive in castigliano, è il nomignolo con cui gli avversari chiamano dispregiativamente il club, sapendo di far infuriare i bilbaini che invece si definiscono El Athletic. Atlético è la denominazione che fu imposta alla squadra durante il franchismo, fatto che spiega da solo perché non sia accettata.
Dato che in Italia nessuno si sognerebbe di chiamare “il Bergamo” l’Atalanta o “Gioventù di Torino” la Juventus, non sarebbe male iniziare a riservare lo stesso trattamento anche alla squadra basca.

2) Una squadra tutta basca
Altro luogo comune celeberrimo: nell’Athletic giocano solo calciatori nati in Euskal Herria. Non è così. La celebre filosofia, che peraltro non è mai stata ratificata nello statuto ufficiale, prevede attualmente di tesserare giocatori nati in territorio basco o formatisi nel vivaio di una squadra basca (tendenzialmente il limite di età è 15 anni); l’Athletic, dunque, potrebbe prelevare un ragazzino di 11 anni dalle giovanili del Sevilla, farlo crescere a Lezama e schierarlo tranquillamente in prima squadra. La politica del club, per il momento, tende a escludere queste acquisizioni (che invece fanno la fortuna di altri vivai famosi, basti pensare a Iniesta o Messi) e a privilegiare ragazzi del territorio o comunque legati a esso da legami familiari. In passato i paletti erano più stretti: a indossare la camiseta biancorossa potevano infatti essere solo i giocatori nati in Euskal Herria.
Nella rosa attuale ci sono due non baschi: il primo è il riojano Borja Viguera, cresciuto nelle giovanili della Real Sociedad, l’altro è il fortissimo difensore francese Aymeric Laporte, notato da un osservatore dell’Athletic in un torneo giovanile, parcheggiato all’Aviron Bayonnais (squadra basca francese) e da qui portato a Bilbao. Un caso controverso, che ha sollevato varie polemiche riguardo al rispetto della filosofia. Insomma, quello del “tutti baschi” è un falso mito.

3) Nessuno straniero
Se si dà per scontato che l’Athletic utilizzi solo giocatori baschi, è logico credere che neppure uno straniero abbia mai indossato la zurigorri. Errore. Il club venne fondato nel 1898 da alcuni studenti che avevano iniziato a praticare il football sull’esempio dei tanti inglesi che allora vivevano a Bilbao, città sempre molto attiva negli scambi marittimi con il Regno Unito. Nei primi, pioneristici anni la squadra schierò molti dei “maestri inglesi” nelle sue fila e fu anche grazie a loro che si aggiudicò vari titoli.
Dopo l’adozione della politica autarchica l’Athletic eliminò quasi del tutto gli stranieri, anche se alcuni figli della diáspora vasca, il processo di emigrazione che coinvolse molti baschi specie durante e dopo la Guerra Civile, hanno indossato la maglia biancorossa dopo l’ampliamento della politica di acquisizione dei giocatori. Tra questi, il brasiliano Biurrun, il messicano Iturriaga e il venezuelano Amorebieta.

4) Cuore a sinistra
Nella visione di Euskal Herria che si ha dall’Italia, l’Athletic è una squadra al quale viene attribuita una fortissima connotazione indipendentista e di sinistra. Ciò è sicuramente vero se si parla della curva: la Herri Norte Taldea, il gruppo organizzato più celebre, e i vecchi Abertzale Sur si sono sempre caratterizzati per propalare l’ideologia della izquierda abertzale, la sinistra indipendentista accusata di vicinanza a ETA e per questo spesso perseguitata e ingiustamente punita. Il discorso cambia per quanto riguarda il club nella sua interezza. Il tifo per l’Athletic è infatti un fenomeno inclusivo in grado di coinvolgere ogni strato sociale della città, nonché di azzerare le differenze politiche nel pubblico.
Bisogna comunque dimenticare l’idea di un Athletic storicamente vicino alla causa dell’indipendentismo di sinistra; semmai va rilevato come tante dirigenze del club siano state molto vicine al PNV, il partito nazionalista di matrice conservatrice e cattolica che va per la maggiore in Bizkaia.
Fuori dalla curva e dagli abertzalek che la popolano è molto difficile parlare di indipendenza. Calcio e politica viaggiano a braccetto solo per un piccolo numero di tifosi.

5) La squadra dei baschi
Da lontano ogni cosa sembra migliore. Chi vede l’Athletic come una sorta di nazionale basca, errore nel quale chiunque è caduto all’inizio, tende a pensare che ogni abitante di Euskal Herria sia tifoso o quantomeno simpatizzante dei biancorossi. Niente di più lontano dalla realtà. I cugini donostiarri della Real Sociedad, che fino al 1989 condividevano la stessa filosofia autarchica, sono probabilmente i rivali più acerrimi dell’Athletic, mentre i rapporti con l’Osasuna di Pamplona sono così tesi da aver provocato in passato anche alcuni scontri tra tifosi.
In generale, l’Athletic fuori dalla Bizkaia è visto come una sorta di Real Madrid basco, che si accaparra i migliori elementi delle varie giovanili, è iper-tutelato dagli arbitri e ha l’arroganza dei potenti. Tutto ciò non significa che assistere a un derby Athletic-Erreala non sia uno splendido spettacolo di sportività, ma toglietevi dalla testa che gli zurigorri siano amati e rispettati in tutti i Paesi Baschi.

6) Una scelta nazionalista
L’idea comune è che la politica autarchica dell’Athletic Club abbia una forte matrice nazionalista: la squadra giocherebbe con 11 baschi per rivendicare il desiderio di indipendenza di Euskal Herria.
In realtà l’adozione della famosa filosofia non ha origini politiche, bensì sportive. In occasione della Coppa del Re del 1911 fu deciso di vietare il tesseramento di giocatori britannici che non risiedessero in Spagna da almeno 6 mesi; l’Athletic vinse il trofeo ma fu accusato di aver schierato due calciatori non in regola, Martins e Sloop, e pur riuscendo a mantenere il titolo decise di rinunciare dall’anno successivo ai giocatori stranieri. Tale scelta fu senza dubbio favorita dalla ricchezza di talenti calcistici in Euskal Herria, dove il calcio si sviluppò più velocemente e con risultati maggiori rispetto alle altre zone della penisola. Dalla fine del ‘900 a tutti gli anni ’30 le squadre e i giocatori baschi dominarono letteralmente la scena: l’Athletic vinse 4 campionati e 14 coppe fino alla pausa imposta dalla guerra, ma anche società oggi sprofondate in terza o quarta serie, come l’Arenas Club di Getxo e il Real Unión di Irun, si aggiudicarono diversi trofei e presero parte alle prime edizioni della Liga.
Per rendersi conto della fortissima influenza basca sull’intero movimento nazionale basta leggere le formazioni della Spagna nelle principali manifestazioni di inizio secolo: dalle Olimpiadi di Anversa del 1920 ai Mondiali italiani del 1934, la stragrande maggioranza dei titolari proveniva infatti da Euskal Herria. Furono baschi dieci undicesimi della prima squadra spagnola a un mondiale e il primo gol della Roja in tale manifestazione (Iraragorri contro il Brasile). Insomma, Euskal Herria sembrava la terra promessa del fútbol.
Al termine della Guerra Civile l’Athletic decise di ricostruire la rosa a partire dai giovani più promettenti della Bizkaia e in breve tornò a vincere, realizzando il doblete nel 1943. Questi successi convinsero i dirigenti di aver intrapreso un cammino giusto, e sicuramente sulla decisione di proseguire con la politica autarchica a questo punto pesò anche il fattore identitario; opporre alle corazzate della Liga un undici formato da soli giocatori cresciuti in Euskal Herria, terra invisa a Franco e ai suoi sostenitori, era indubbiamente motivo di orgoglio. La caduta della dittatura non cambiò nulla, perché il legame tra il club e la sua terra di origine era ormai divenuto troppo stretto per essere reciso senza danni. E tale è rimasto fino a oggi.

7) Razzismo biancorosso
Il luogo comune più infamante sull’Athletic è indubbiamente il presunto razzismo della propria filosofia, che molti detrattori hanno tentato di far passare per una neppur troppo velata forma di tutela estrema (ed estremista) della cosiddetta “razza basca”, teorizzata in altri tempi dal padre del nazionalismo basco Sabino Arana. Tale ipotesi in passato veniva giustificata citando due casi di giocatori di colore scartati dall’Athletic, secondo gli accusatori a causa della pelle nera.
Il primo, Miguel Jones, ha smentito di persona questa falsa credenza: a fine anni ’50, quando mosse i primi passi da calciatore, la politica del club prevedeva di tesserare solo baschi di nascita, cosa che portò a non acquistarlo visto che, pur vivendo a Bilbao dall’età di 5 anni, era nato in Guinea Equatoriale. In quegli anni furono scartati anche tre bianchi come Chus Pereda (tifosissimo dell’Athletic nato nei dintorni di Burgos), Santiago Isasi e José Eulogio Gárate, nato a Buenos Aires da genitori baschi in esilio, circostanza che nega le accuse di razzismo rivolte all’Athletic.
Il secondo caso è quello di Benjamín Zarandona, equatoguineano di origine basca che anni fa dichiarò di non essere passato all’Athletic a causa della pelle nera; Benjamín ha poi ritrattato in una seconda intervista, e in ogni caso le sue prime frasi non trovarono mai riscontro.
Per fortuna, a spazzare una volta per tutte le voci sul razzismo del club sono stati gli esordi di Jonas Ramalho e Iñaki Williams, i primi due giocatori neri della storia biancorossa. La globalizzazione ha portato molti baschi di seconda generazione nelle giovanili di Lezama e l’Athletic ha dimostrato di non avere preclusioni di sorta; Williams, al contrario, è già un idolo a Bilbao, dove i tifosi non aspettano altro che un suo gol al Santiago Bernabeu, magari sotto la curva dei neofascisti Ultras Sur, per eleggerlo a leggenda vivente della squadra.

8) La maglia zurigorri
La prima maglia dell’Athletic Club non era a strisce biancorosse ma completamente bianca, con pantaloncini bianchi e calzettoni neri. Nel 1903, in occasione della prima Copa del Rey, la squadra adottò una divisa più caratterizzante, metà bianca metà blu, simile a quella del Blackburn Rovers FC. Nel 1910 i dirigenti incaricano il giocatore Juan Elorduy, in partenza per l’Inghilterra, di acquistare 50 maglie del Blackburn per sostituire quelle vecchie, ormai logore; Elorduy però aspettò l’ultimo giorno utile e non riuscì a trovarne abbastanza. Il giorno della partenza per Bilbao da Southampton decise di fare un tentativo prima di imbarcarsi: trovò 50 maglie, ma erano quelle biancorosse della squadra locale. Le prese comunque e rientrò in Bizkaia, giustificando l’acquisto con la maggior qualità del tessuto e il legame diretto con la città di Bilbao, i cui colori ufficiali sono proprio il bianco e il rosso. Il cambiamento piacque e da allora il club portò con orgoglio il suo completo zurigorri.

9) Cantera, solo cantera
La visione romantica del club vuole che Lezama sia l’unica risorsa dalla quale pescare i giocatori per la prima squadra. In realtà, l’Athletic da sempre si caratterizza per puntare ad acquisire i migliori talenti delle altre squadre basche, dunque ha sempre fatto ricorso in modo più o meno massiccio al mercato (pur con tutte le limitazioni imposte dalla propria filosofia).
Dall’acquisto di Gorostiza per 20.000 pesetas nel 1929 al clamoroso passaggio di un 18enne Joseba Etxeberria, figlio dell’ex presidente della Real Sociedad, per 550 milioni di pesetas (poco più di 3 milioni di euro attuali) nel 1995, i biancorossi non hanno mai rinunciato ai giocatori baschi più forti. Quando non sono riusciti a prenderli è stato a causa di rifiuti motivati dal tifo, come nei casi recenti di Arteta e Xabi Alonso.
Lezama è importante, ma non è l’unico modo per costruire la squadra. Ciò è vero soprattutto durante le campagne elettorali, quando i candidati prospettano grandi colpi per riuscire a scalare la poltrona presidenziale.

10) Pichichi
Rafael Moreno Aranzadi, detto Pichichi, fu la prima grandissima stella dell’Athletic. Giocatore di straordinario talento e popolarità, fu un personaggio nel vero senso del termine e la sua aura di leggenda aumentò ancor di più dopo la morte in giovane età, dovuta a un violento attacco di tifo, che sconcertò e commosse tutta la Spagna. Non è un caso che il giornale Marca abbia deciso di intitolare a lui il trofeo che premia il capocannoniere della Liga, istituito nel 1953. Durante la sua carriera vinse 4 Coppe del Re, 5 campionati regionali e la medaglia d’argento alle Olimpiadi del 1920 di Anversa. L’Athletic lo ha omaggiato ponendo all’interno dello stadio San Mamés (dove Pichichi segnò il primo gol in assoluto nel match d’inaugurazione, nel 1913) un busto in suo onore.
La tradizione legata al monumento, nonostante le tante voci, è una sola: il capitano di una squadra avversaria che gioca per la prima volta al San Mamés omaggia il busto di Pichichi con un’offerta floreale, da consegnare insieme al capitano dell’Athletic. Nel vecchio stadio il busto era posto in tribuna d’onore, ora invece è alla fine del tunnel d’ingresso allo stadio.

11) Zero titoli
La smentita a quest’ultimo luogo comune è recentissima: lunedì 17 agosto 2015, nella splendida cornice di un Camp Nou di Barcellona gremito, il capitano dell’Athletic Carlos Gurpegi ha alzato al cielo la Supercoppa di Spagna, la seconda in assoluto messa in bacheca dai biancorossi. La vittoria sui marziani del Barça, sconfitti nella partita di andata con un 4-0 per loro davvero umiliante, ha posto fine a un digiuno di titoli lungo 31 anni: l’ultimo trofeo risaliva infatti al 1984, anno del doblete Liga-Copa del Rey. Da allora tanta sofferenza, alcune sconfitte dolorose (particolarmente pesanti le finali di Europa League e Coppa del Re perse nel 2012) e diverse temporadas tra l’anonimo e il pericoloso, dove la salvezza era l’unico obiettivo stagionale. Perché per l’Athletic, unica squadra della Liga insieme a Barcelona e Real Madrid a non essere mai retrocessa in Segunda División, la permanenza nel calcio di élite rappresenta il vero “scudetto” stagionale.
I soliti detrattori, negli ultimi anni, amavano sottolineare la polvere accumulatasi nella bacheca del club, rimarcando in tal modo l’anacronismo e il sostanziale fallimento del modello sportivo bilbaino; una visione parziale, che dimentica i tanti successi ottenuti dagli zurigorri nella loro storia (8 campionati e 24 coppe i principali) e tralascia di rilevare come il divario tra le due grandissime della Liga e le altre squadre si sia fatto sempre più grande, rendendo molto difficile la vittoria nelle competizioni domestiche. In ogni caso, la qualificazione alla Champion’s League 2014 e la Supercoppa 2015 hanno dimostrato a tutti che si può portare avanti un’idea di calcio diversa senza dover rinunciare per forza ai risultati. Un esempio che vale sicuramente più di tante coppe e coppette per vincere le quali molti club hanno venduto la loro anima.

Articolo pubblicato il 29 agosto 2015 su Q Code Magazine.

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