Minuto Settantotto

gente che si commuove con il diario di Bobby Sands e il gol di Sparwasser

Ama il calcio odia il razzismo.

A Lampedusa, con l’arrivo della primavera, il tempo è sempre più sereno. Il cielo è limpido, il mare è quieto, l’aria inizia a scaldarsi.

Per chi si trova sulla sponda fortunata del Mediterraneo significa una passeggiata lungomare, una gita in campagna o semplicemente una partita di calcio tra amici dopo il freddo invernale.

Per chi invece si trova sulla sponda diseredata, il bel tempo significa condizioni migliori per ‘tentare la traversata’. Sì, crediamo che non ci sia un’espressione migliore per descrivere un ‘viaggio’, in condizioni disumane e con mezzi di fortuna, per attraversare prima il deserto e poi il mare.

A Lampedusa capita che si passi, in pochi giorni, dall’una all’altra condizione. Una giornata di sole primaverile diviene l’occasione per uscire, passando per una fessura della recinzione che circonda il centro di accoglienza, lasciata appositamente lì, e giocare sull’unico campo dell’isola una partita di calcio tra superstiti dopo la gelida traversata.

Basterebbero queste poche righe per rispondere al post di Salvini dove sfotte ironicamente il «pomeriggio impegnativo» sul campo da calcio dei ‘richiedenti asilo’. Basterebbe avere un briciolo di umanità per capire cosa rappresenti quella partitella improvvisata per quei ragazzi che fino a pochi giorni prima non sapevano se sarebbero riusciti ad arrivare sulla terraferma. Basterebbe capire che fuggire dalla fame e dalla miseria equivale a fuggire dalle bombe e dalle guerre. Potremmo continuare, ma sappiamo benissimo che gli sciacalli come Salvini, che costruiscono consenso sulla pelle degli ultimi, non riuscirebbero mai a capire.

Quello che ci preme però è l’informazione. A Lampedusa ci sono soltanto persone salvate in mare che restano 72 ore, ma nella pratica possono essere anche mesi, nel centro di accoglienza per poi essere spostati in Italia ed iniziare le pratiche per la richiesta di protezione internazionale. Durante la permanenza sull’isola sono confinati in un limbo nella speranza di partire. Probabilmente, la partita incriminata rappresenta l’unico momento di svago nelle lunghe ore di attesa.

Una volta arrivati sulla penisola, oltre a non poter svolgere nessuna attività lavorativa, i richiedenti sono inseriti in programmi che prevedono lezioni, corsi di italiano ed attività. Però, come ogni persona, nel corso della giornata hanno del tempo libero a disposizione. Non deve quindi meravigliarci se capita di vedere questi ragazzi giocare a calcio nei campi pubblici. Anzi, il calcio rappresenta un veicolo importante per l’integrazione.

In questo senso, proprio il campo lampedusano è il centro di un progetto, finanziato dalla Lega Serie B e da B Solidale Onlus, dal nome “The Bridge – Un Ponte per Lampedusa”, che ha come obiettivo la costruzione di uno stadio pubblico con tribune, spogliatoi ed illuminazione per ospitare le partite sia della squadra locale, maschile e femminile, sia dei ragazzi del centro di accoglienza. Questa è una delle iniziative più importanti a livello di risorse e di richiamo mediatico, ma l’Italia, fortunatamente, è piena di piccoli progetti sul territorio che coinvolgono i richiedenti asilo in attività calcistiche.

In alcune realtà sono state create delle squadre composte esclusivamente da richiedenti e rifugiati che partecipano ai campionati dilettantistici regionali, come il Pagi di Sassari, lo Spartak Lidense di Ostia e il Kao Bosco di Rosarno. Poi ci sono un’infinità di squadre, sia di richiedenti sia miste, che partecipano invece ai campionati amatoriali di calcio, calcetto e calcio a 7, dal Uisp al Csi; tra queste merita una menzione speciale la Optì Poba di Potenza, il cui nome prende spunto dalle dichiarazioni razziste del presidente Tavecchio, mostrando come l’ironia sia ben altro. Oppure c’è chi organizza tornei di calcio antirazzisti aperti a tutti, ma in particolare ai richiedenti e rifugiati; a Milano, proprio in questi giorni, si giocherà il torneo No Borders League organizzato da Hopeball. Senza contare i tanti richiedenti e rifugiati che singolarmente, nonostante le lungaggini burocratiche, militano nelle squadre dilettanti del territorio. Esempi di questo genere esistono in tutta Europa, si pensi alla squadra tedesca Lampedusa Fc Hamburg, sostenuta dal Sankt Pauli.

L’obiettivo comune di queste esperienze è semplice: integrare attraverso il calcio. La sua dimensione popolare lo rende il principale strumento di contatto tra le comunità locali e i richiedenti/rifugiati: una semplice partita diviene l’occasione per conoscersi e parlare attraverso il linguaggio universale dello sport, che aiuta ad abbattere i muri di carattere linguistico e culturale. In più, per chi ha vissuto il peso della guerra, della violenza o della miseria, correre e calciare un pallone rappresenta un momento di leggerezza per non pensare al passato ed assaporare la libertà ritrovata.

Quando la partita saltuaria si consolida, trasformandosi in appuntamento settimanale, il calcio è integrazione. È proprio questo il compito dei progetti in questione. Formare una squadra che si alleni più volte nel corso della settimana, fornendo anche una dimensione agonista e competitiva come un campionato o un torneo, aiuta i ragazzi a ritrovare la fiducia in sé stessi, a scandire il tempo libero e ad interagire quotidianamente con persone del posto, che siano allenatori, compagni di squadra o avversari, condividendo spogliatoio, campo, vittorie e sconfitte.

Lo sport ci ricorda come la solidarietà e l’accoglienza rappresentino i suoi valori fondanti, in particolare per il gioco che noi amiamo, perché chi ama il calcio odia il razzismo.

YURI CAPOCCIA

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